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SHIMAMOTO SAMURAI, ACROBATA DELLO SGUARDO
Achille Bonito Oliva


L'arte non produce belle statuine e nature morte ma opere che sfidano la creazione primigenia del mondo, attraverso il linguaggio figurativo ed astratto, sempre sostenuto da un FUROR che ha investito progressivamente nel tempo dalla testa l'intero corpo dell'artista. Se Michelangelo in occidente si riconosce nella forma antropomorfica delle sue figure, Picasso nel frullante erotismo delle sue scomposizioni cubiste, Pollock ritrova nel reticolo dei suoi labirinti al dripping non tanto la propria immagine allo specchio ma l'ANSIETAS della condizione moderna, in cui l'uomo è necessariamente indeterminato.
In oriente gli artisti, assistiti dalla cultura zen, hanno accolto nel processo creativo il caso intelligente, la possibilità di un gesto che nel suo impeto va a bersaglio per disciplina ed arriva alla forma. Quello che fa Shimamoto, un performer della pittura.
La performance deambulatoria di Shimamoto è frutto di una coscienza dell'irreversibile PERDITA DEL CENTRO nell'arte e nella vita. Il desiderio di riconquistare il paradiso perduto di un'unità antropologica ormai dissolta dello SPLEEN della città moderna. Al dolmen moderno del grattacielo Shimamoto non oppone la macchia esistenziale dell'angoscia ma la costruzione di un labirinto che afferma a futura memoria la qualità morale dell'ordine formale contro la quantità di un indistinto disordine.
"Forse la frase di Leibniz: Cum Deus calculat fit mundus, dovrebbe essere tradotta più adeguatamente: Mentre Dio gioca il mondo diventa mondo" (M. Heidegger). La ragione occidentale ha cercato di dominare sia la vita sia il gioco, adottando le astute nozioni di identità e di dialettica per escogitare un controllo con­tinuo del mondo e delle sue trasformazioni. Il logocentrismo oc­cidentale ha sempre simulato attenzione e adattamento alla di­namica dei fatti, arrivando a fondare la nozione totalizzante di Storia.
L'irruzione della psicanalisi e delle scoperte scientifiche, e­splose all'inizio del nostro secolo, ha ridotto la presunzione di un controllo totale da parte del soggetto, di poter dominare tutta la realtà. L'interpretazione dei sogni di Freud, il quantum di Plank, l'indeterminazione di Heisemberg hanno scardinato la superbia cartesiana della ragione occidentale, aprendo verso direzioni che le avanguardie storiche, specialmente il Dadaismo e il Surreali­smo, hanno praticato, e fino in fondo poi le neo-avanguardie americane con l'Espressionismo Astratto. L'arte orientale ha sempre posseduto la regola di una gestualità in sintonia con un ordine interiore.
L'arte tradizionale era il portato di una tecnica che ambiva a trasferire sul piano dell'immagine l'oscura intuizione dell'artista, senza altre interferenze. Invece le avanguardie scoprono il valore dell'interferenza e della discontinuità, dell'irruzione del caso che entra continuamente in gioco in ogni attività, in ogni ambito della vita, al livello molecolare e a quello della formazione del quoti­diano. La cultura occidentale, tramite l'arte delle avanguardie, deve accettare come valore un dato che già la cultura orientale aveva adottato a principio di formazione del mondo.
In sincronia con le scienze umane, l'arte delle avanguardie adotta ottimisticamente il principio d'espansione, cercando attra­verso le proprie pratiche di attivare processi di accrescimento della sensibilità. Il raccordo con le scienze umane comporta una presa di coscienza per l'artista che, seppure chiuso in un ambito ristretto di consenso, sente di operare nella direzione di una cul­tura progressista e progressiva, secondo una circolarità, che salda finalmente oriente e occidente, apertura al caso e controllo delle tecniche.
Dadaismo e Surrealismo praticano dunque una cultura del­l'espansione, il primo giocando sulla pelle delle cose, degli oggetti e dunque del quotidiano, il secondo invece grattando sotto la pelle del soggetto. Comunque entrambe le poetiche cercano una dilatazione, oltre la fenomenologia dell'oggetto e del soggetto, oltre il principio di identità che aveva dominato il razionalismo positivistico dell'ottocento. Come la ragione non riesce più a do­minare i processi di trasformazione del mondo, così l'arte non può, con l'ausilio delle tecniche tradizionali, tutte giocate sul controllo, esaurire il proprio percorso nel progetto dell'artista.
Se l'arte passa attraverso una proverbiale nominazione delle cose, un riconoscimento normativo del reale, ecco allora il Da­daismo produrre un'antiarte, che capovolge l'atteggiamento di ra­gionevolezza e di concordia con il mondo in un attacco sistemati­co a esso, mediante l'assunzione del mondo stesso, nei suoi frammenti e reperti quotidiani, dirottati e alleggeriti del loro senso comune e caricati di inutilità, nella direzione del non funzionale. Perché questo avvenga è necessario che l'artista sia consapevole dell'onnipotenza del linguaggio, del suo libero arbitrio che gli permette qualsiasi gesto verso il mondo. "L'uomo non è più arti­sta, egli è diventato opera d'arte" (E. Nietzsche, La nascita della tragedia). Questa consapevolezza permette all'artista dadaista di prelevare l'oggetto, di sollevare il mondo fino a un'altezza prece­dentemente impensabile e di spostarlo in un luogo in cui egli non è più padrone assoluto ma deve subire l'accrescimento che deriva all'oggetto da altre forze.
Nel 1955 in Giappone, nella piccola città Ashiya, Shimamoto inizia la sua avventura con un lavoro creativo realizzato in pubblico, un giardino dove lui e altri artisti realizzano opere, frutto di un'attività performativa nella quale il fare l'opera è sincronico al contemplare del pubblico, con tutte le interferenze di un evento in diretta.
La complessità risiede ora nella compenetrazione tra inter­vento dell'artista e caso, nella rottura del rapporto di causa e effetto che permette di introdurre nell'opera la possibilità discon­tinua di un elemento che porta una perturbazione e, in questo, un salto di intensità all'inerzia del quotidiano. Questo è possibile, in quanto il linguaggio dell'arte possiede un potere di condensazione fuori dalle regole della comunicazione codificata, un tasso di aso­cialità che permette accostamenti inediti che non dipendono da alcuna volontà.
Automatismo significa dunque libertà del linguaggio di com­portarsi e di aggregare nuovi sensi anche al di fuori della volontà progettante dell'artista, il quale anzi lascia che altre volontà in­tervengano nell'opera a determinare un allargamento del senso, fino alla sua trasformazione in puro significante. Ciò significa che l'artista dadaista non desidera passare da una certezza a un'altra, bensì produrre degli slittamenti come movimento perpetuo del sen­so che non si stabilizza mai.
In ogni caso tali processi avvengono secondo modalità im­previste, non condizionate dalla volontà ma sottoposte a regole imponderabili. Così anche per il gruppo Gutai, di cui Shimamoto fa parte, entra nel gioco del­l'arte un fattore di imprevedibilità, determinato questa volta dalla natura stessa dell'inconscio, che espande e dilata l'intenzionalità dell'opera. Dunque resta il modello dadaista, seppure riportato sotto il segno di una imprevedibilità interiore. "Il regalo di Du­champ per il compleanno della sorella consisteva nel sospendere ai quattro angoli del balcone di costei un libro di geometria aperto per farne lo zimbello delle stagioni" (A. Breton).
Gli artisti del gruppo Gutai (Yoshihara, Kanayama, Motonaga, Murakami, Shiraga, Sumi, Tanaka, Yamasaki, Yoshida) adottano le associazioni libere per portare nell'opera, mediante l'automatismo psichico che regge il formarsi dell'immagine, il funzionamento di un pensiero fuori dalla logica tradizionale. Le tecniche adottate vanno dal frottage, al dripping alla decalcoma­nia, alla pittura a fumo, agli oggetti-simboli, ai fotomontaggi e alle composizioni tipografiche. Quasi tutte tendono a trasmettere non più un controllo cosciente dell'impulso creativo.
L'arte di Shimamoto diventa una pratica ulteriore dello sconfinamento e dell'espansione, nel senso che recupera come valore anche i terri­tori del pensiero stordito, dell'impulso che filtra direttamente ol­tre la censura della forma e malgrado essa.
Questo avviene nei suoi collages di giornali sporcati, nelle bordate di pittura, sparate direttamente sulla tela davanti a un pubblico implicato nella performance.
L'immagine è un'esplosione cromatica che non ha più un artefice unico a cui riferirsi, non deve tutta la sua paternità all'applicazione dell'ar­tista. Ora sono entrati in campo altri fattori che ne determinano e ne condizionano l'apparizione. Lo stordimento non significa perdi­ta, ma al contrario acquisto di un'ulteriore possibilità e perdita semmai di una patetica superbia che accompagnava il lavoro del tradizionale artista occidentale, forte della sua mentalità logocen­trica.
Shimamoto stordisce l'immagine a forza di retrocessione della tecnica, attraverso il riportare il lavoro ar­tistico sotto il segno dell'automatismo. Ma l'immagine stordita, effetto di tali procedimenti, non è in perdita rispetto al desiderio d'espansione delle avanguardie. Al contrario essa è l'effetto di un accrescimento che riesce a introdurre nel campo delle forze crea­tive il valore di fattori che sono l'effetto di un non lavoro, che non richiedono sforzo o sacrificio ma al contrario disponibilità e instabilità.
Sembra che la realtà abbia da sempre condannato l'uomo a spingersi tra le cose nella possibilità di una, doppia posizione: a carponi e in quella eretta. Entrambe comunque presuppongono la sicurezza dell'interlocuzione, dell'ostacolo da aggirare, di una do­manda che investe e spinge l'uomo verso la meta finale della ragionevole soluzione. La prima posizione nasce quando le cose si muovono a pelo della terra, rasoterra, quando la ragione effettua le sue belle capriole per afferrare per la coda il dato che sfugge. La seconda posizione presuppone la sicurezza del suolo, la co­scienza ottimistica di toccare con i piedi per terra e allora il logos si arma della sua onnipotenza che ci permette di camminare in punta di piedi con il sussiego della intelligenza, tutti impettiti e compunti, sicuri, della meta agognata.
Shimamoto dunque compie un gesto inusitato, effettua un movimento inconsulto che infrange i canoni del buon vivere della ragione per effettuare una sgomitata tra i rigidi paletti delle cose e mandarli all'aria. L'arte predica il bisogno della cecità e per questo ordina all'artista di camminare bendato, di coprirsi gli occhi per meglio vedere: vedere che cosa? Non certo i contorni degli oggetti quotidiani ma per sbattervi contro, soltanto allora sentiamo il loro spessore e ci accorgiamo di non vivere in solitudine ma tra la santa estraneità del reale.
L'artista Giapponese ci ha liberato dal peso gravitazionale, ci ha insegnato che ben altre materie e ben altri magmi si muovo­no sotto l'apparente armistizio che regola la distanza tra, i corpi solidi e i nostri corpi gasati. Ha perforato la corazza e la pelle dei fenomeni, per rovesciarne davanti ai nostri occhi le viscere interne che fermentano oscuramente senza decoro e senza sosta.
Ma per arrivare a questo bisogna prima disarmarsi, bisogna che l'artista abbandoni ogni controllo e si abbandoni letteralmen­te ai buchi neri dell'inconscio. Dopo Freud, l'arte non è più il ponte levatoio che porta verso verticali purezze ma diventa la talpa che scava in profondità per risucchiare verso l'alto della forma i flussi e i miasmi esalanti da un luogo interdetto alla ragione e alla memoria ragionevole. L'in­conscio con le sue stratificazioni e ossidazioni, con la sua tempo­ralità circolare, preme con la sua emergenza.
In Shimamoto l'automatismo diventa l'imperativo categorico di una nuova creatività aperta all'impulso che sale come un conato e si afferma per la sua intensità e non per la sua chiarezza. L'intensità diventa la verità che autorizza il gesto pittorico, che benda i tanti occhi della ragione facendola inciampare nel campo dionisiaco del puro desiderio. I movimenti corrispondono a quelli dello spazio oniri­co, teorizzato da Freud, quelli dello spostamento e della conden­sazione.
L'automatismo del gesto è direttamente proporzionale all'au­tomatismo della psiche, al moto inconsulto e involontario del pro­fondo. La materia dell'arte è l'inconscio con la sua energia, l'immaginario che vola in tutte le direzioni, disseminato a tutte le altezze e le bassezze.
L'immaginario è un'energia mentale che non tocca solamente il livello corticale ma attraversa tutto il corpo dell'artista, inteso come campo elettrico che genera catene di emozioni e scatena impulsi che, senza l'esperienza dell'arte, resterebbero accovacciati dentro l'incavo dell'oscura inconoscibilità. La creatività artistica di Shimamoto con le sue bordate policromatiche su superfici ed oggetti antichi o moderni diventa l'arpione che agguanta la scheggia luminosa e notturna dentro il magma dell'inconscio. La forma porta alla luce l'oscurità, promuove la salita e la chiara esposizione del dettaglio che nep­pure l'artista riesce a denominare senza il gesto garante dell'arte. Se la scienza moderna ha esaltato il caso intelligente, la celebrazione dell'evento provocato dalla rottura della rigida catena causa -effetto, l'arte contemporanea, dal coup de dés di Mallarmé fino al cut-up di Brian Gysin messo in uso da W. Burroughs, celebra il caso dolente della forma in Occidente e, con Shimamoto e il gruppo Gutai, il caso stereofonico in Oriente.
Il pensiero magico trattato nei libri di Carlos Castaneda distingue una doppia realizzazione dell'universo, una tonal, di pura registrazione della natura, una conferma statistica del visibile. Un'altra invece nagual, che procede dall'irruzione del caso, capace di aprire a nuove forme della realtà.
Shimamoto opera all'incrocio di una doppia tradizione. Una legata alle avanguardie storiche, nella figura strategica di Marcel Duchamp col suo ready-made, l'altra derivante dalla linea del gruppo zero e dello zen lo porta verso la valorizzazione del caso. Questo è sollecitato attraverso tecniche promananti dal quotidiano e dall'uso di utensili non appartenenti all'apparato tecnico-espressivo della storia dell'arte. Shimamoto adopera la precisione del cacciatore ed il dolore della preda.
Qui l'artista diventa il portatore di cannone, di una vista sintonizzata sulla distanza del vicino e del lontano, pronta all'inquadratura di un dettaglio esterno che diviene immediata­mente bersaglio. Shimamoto usa il cannone come protesi per ridurre l'intervallo spaziale tra il proprio corpo e la realtà circostante. Utilizza superfici di tela su cui far esplodere bombolette di colore, colpi di proiettile che trafiggono la carne della tela e la rompono secondo squarci imprevedibili e slabbrati, ferite senza possibilità di cicatrice.
Infatti l'artista giapponese ha definito queste superfici, spalla dolente materia trafitta dai colpi dirompenti del cannone che lacera crudelmente la levigatezza del materiale, scelto a caso ed a caso trasformato in altro da sé.
Dolente diventa ogni oggetto trafitto dall'attenzione dell'artista che colpisce, brucia, sgocciola e spruzza fuori dal proprio spazio corporale energia pulsionale. Essa ha bisogno di una sosta, di un bersaglio, formalmente definito, capace di trattenere a futura memoria l'impeto aggressivo di un bisogno espressivo, carico di erotismo e di impulsi di morte.
Perché l'arte è proprio questo: un corto circuito di eros e thanatos. Ogni fondazione di vita ha sempre bisogno di una preventiva distruzione, secondo il classico adagio nicciano. La distruzione serve a sgombrare il campo, a depurare la materia per poi poterla trattare senza scorie e pendenze.
Shimamoto ha cominciato con il collage a sezionare, con la sadica ed amorosa cura del chirurgo, la carne indolenzita la scrittura dei giornali, mortificata dalla codificazione del senso, dalla conseguenzialità logico-discorsiva. Col taglio la letteratura ha un soprassalto di dolore e di risveglio, perde l'ingessata protezione del significato e si apre a nuove possibilità.
La possibilità nasce proprio dall'irruzione del caso che percorre la pianificata superficie del foglio scritto. Come un geometrico movimento tellurico, la forbice dello scrittore chirurgo rimette le parole nella condizione del frammento mutilato aperto a nuove intese. L'apparizione del significante comunica non un senso pacificato ma la bellezza misteriosa dell'imprevedibile e dell'indicibile. Il trasferimento dell'operazione dalla letteratura all'arte figurativa, ha significato per Shimamoto il passaggio dall'identità di chirurgo a quella di cacciatore. La creazione resta sempre un bussare alla porta, un chiedere permesso di accesso al caso che fa irruzione in tal modo nell'universo delle forme.
Se il collage permetteva di formalizzare l'indicibile, la tecnica dello «shotgun» fonda l'apparizione dell'invisibile, ciò che all'arte chiedeva Klee. Insomma Shimamoto applica da buon sciamano la strategia apotropaica e magica di Castaneda alla porta di Duchamp. Bussa col cannone e la porta si spalanca verso la direzione di un significante che tiene aperti i battenti verso tutti i lati.
Ecco apparire sgocciolanti, bruciature, segnali antropomorfici, forme circolari, graffiti, squarci di varie profondità, buchi e crateri che ornano la superficie investita dai colpi di mano che l'artista produce.
L'arte diventa la spalla dolente della materia, la traccia di una dinamica tesa alla trasformazione del visibile, segnata in tal modo dal passaggio sensibile dell'uomo.
L'universo di Shimamoto è piegato di incidenti formali: il lancio di una moneta, di un pennello, un colpo di cannone, la macchia di un colore, l'introduzione di sagome di cose, alberi e uomini, presenze di foglie, griglie, maschere, pezzi di vetro rotto, puzzle fotografici ed infine parole. Tutto diventa immagine. E questo è l'effetto di un'arte giocata sempre sulla trasformazione degli elementi. Una furia tutta giapponese accompagna l'evento creativo.

Achille Bonito Oliva.

 

 

 

Le Patate con i Vermi soffrono il Solletico by Shozo shimamoto

"Ascolta, c'è un insetto palla che cammina un sacco, sta facendo una passeggiata, e se prende quella strada e ci va fino alla fine, arriverà al mare."

Questo è il titolo del disegno di un bambino che fu esposto all'esposizione Dobiten di Ashiya.

Ashiya Dobiten è la mostra dei disegni di bambini che fu istituita nella città di Ashiya nel 1949. In quegli anni noi membri del Gutai che vivevamo insegnando ai bambini, presentavamo i loro lavori in questa esposizione. Tuttavia, anche se formalmente eravamo noi ad istruire i bambini, di fatto erano loro che ci insegnavano molte cose e influenzavano continuamente i nostri lavori. Facendo opere sperimentali con i bambini allo scopo di poterli far partecipare alla Dobiten, sentimmo sulla nostra pelle il vero spirito d'avanguardia. Non penso di esagerare affermando che gli esperimenti artistici che il gruppo Gutai condusse nel dopoguerra furono possibili grazie all'esperienza avuta con i bambini della Dobiten.

La Dobiten continua a tutt'oggi e come sempre è all'insegna di disegni liberi con rappresentazioni di ogni tipo e titoli inauditi come quello: "Ascolta, c'è un insetto palla..." Ma non tutti i titoli sono eccessivamente lunghi.

Un anno mi colpì molto il disegno di un bambino che aveva tracciato un grande cerchio nero con dentro tanti puntini rossi, ed il titolo era: "La patata ha i vermi e dice che le fanno il solletico." Mi sono commosso, mi è piaciuto così tanto che lo uso come un mio motto o un proverbio.

Appena ne ho l'occasione ne parlo. Quando arrivano gli studenti al primo giorno di università, dò immancabilmente il via alla lezione dicendo che le patate soffrono il solletico. "Vi trovate a casa vostra e andate in cucina per preparare delle patate, ma quando le prendete in mano vi accorgete che hanno i vermi che si agitano con la loro gobbetta. Come reagite? Pensate subito di essere stati sfortunati? La gente digitale che analizza ogni possibile situazione giudicando solo se ci guadagna o se ci perde non ha il diritto di diventare artista. Piuttosto che inseguire la perfezione tecnica è importante avere un cuore poetico che sia in grado di pensare a quanto solletico possa sentire una povera patata!"

Uno dei miei insegnamenti è di lasciar perdere l'arte se si è solo animali economici con la mente fissa sul bilancio. Per inciso però, vorrei specificare che i bambini non dicono facilmente il titolo dei loro disegni. I bambini infatti sono stanchi e innervositi dalle continue correzioni degli insegnanti e dei genitori dato che una volta il titolo è troppo lungo, un'altra volta non è coerente con il disegno, eccetera eccetera.

Ma questo comportamento oppressivo delle persone adulte è davvero imperdonabile, perché solo per il fatto che sono convinte di avere una conoscenza ricca e una maggior esperienza, si prendono il diritto di entrare con le scarpe sporche di terra nel mondo dei sogni dei bambini.

Di fatto invece, ben distanti dall'avere una gran esperienza, gli adulti dovrebbero prendere coscienza di essersi dimenticati già molto tempo fa quella sensibilità artistica "delle patate che sentono solletico".

E qui entra in scena nuovamente il maestro Sone.

Anche ora che ha superato gli 80 anni, il maestro Sone fa della sua principale ragione di vita l'andare a trovare i bambini all'asilo, pur dovendo fare molta strada ogni volta. Quando Sone chiede ai bambini cosa stanno disegnando, loro che vedono in Sone un comune adulto, rispondono: "Non te lo dico", e lo fissano come a dire: ...insomma, guardando dovresti capirlo da solo senza il bisogno di chiedere il titolo,no?

Allora Sone riprende: "Eh, ma io sono un povero vecchio che non è andato all'asilo, e non riesco a capire.." "Cosa? Non sei andato all'asilo? Ah, se allora non sei intelligente mi tocca proprio dirtelo", e così in genere i bambini cominciano a parlare del loro disegno.

Per questo anche gli insegnanti dell'asilo fanno affidamento sulla metodologia di Sone per chiedere i titoli dei disegni, e anche se la risposta del bambino è strana o sembra contraddittoria, cercando di ammettere di essere loro adulti ad aver perduto quella sensibilità straordinaria, non fanno obiezioni né correzioni.

In occasione di una Dobiten in cui facevo parte della giuria, c'era un grande foglio da disegno con una sola macchia blu. Mi incuriosì sapere quale potesse essere il titolo e sotto c'era scritto: "(Per me) basta così." Se un bambino dice che così basta, vuol dire che è sufficiente. Non c'è da sentenziare che bisogna disegnare di più.

Un'altra opera che catturò la mia attenzione era una scatola di dolci che era esposta senza che si notasse nessuna decorazione aggiuntiva, neanche un pò di colore. Il titolo, era: "Questa è di Miyo" [il nome della bambina stessa] La maestra dell'asilo l'aveva data alla bambina dicendole di usarla come punto di partenza del suo lavoretto, ma a Miyo la scatola era piaciuta subito così com'era, e aveva pensato di portarsela a casa a fine mostra. In questo caso è da applaudire anche la maestra dell'asilo per averne permesso l'esposizione.

Shozo Shimamoto

 

 

La testa rasata va in giro per il mondo

Con la mia testa rasata, nel 1987 sono stato in America ed in Canada, e ho poi viaggiato nel 1990 in Europa da Londra fino a Leningrado. Nel 1993 sono andato in Italia ed in Finlandia.

Durante le mie tappe sono stato accolto da molti artisti della mail art che hanno scritto i loro messaggi sulla mia testa, oppure vi hanno proiettato diapositive o anche film. Tutti infatti erano pronti ad aspettarmi con alcune idee in mente.

Nel 1988 un mio studente mi portò una copia della rivista che aveva trovato nella tasca del sedile dell'aereo della JAL in un volo Tokyo-Parigi. Era una sorta di guida del Giappone dove si presentavano in lingua inglese le bellezze dei templi buddisti, le informazioni sui piatti tipici e quant'altro. Ma fra le altre cose, nella pagina che trattava di cinema, era anche riportata come curiosità la possibilità di vedere un film proiettato sulla mia testa, con tanto di illustrazione disegnata a mano.

Senza saperlo, la mia testa rasata stava volando in giro per il mondo.

Nel 1987 spedii agli artisti della mail art un foglio con stampata la silhouette della mia testa vista da dietro ed un messaggio in cui invitavo gli artisti a fare il loro intervento. Ricevetti circa 500 risposte. Il fatto che le risposte fossero così numerose è dovuto al sistema del network caratteristico dell'arte postale, in cui non è raro che degli artisti copino e reinterpretino il contenuto originale per poi stamparlo di nuovo inviandolo ad altri artisti e così via.

[...]

Un giorno mi arrivò una mail art molto singolare. Proveniva dalla Francia e l'autore era Pascal Renoir, anche se il foglio originale era partito dall'artista olandese Cor Reyn che aveva a sua volta fotocopiato la mia testa e inserito il messaggio di invito a disegnarvi dentro qualcosa. Ebbene Renoir dentro alla mia testa fotocopiò una decina di altre silhouette rimpicciolite della stessa , riproponendo l'invito a disegnarci dentro qualcosa, e la spedì anche a me. Vedendola, non riuscii a trattenermi dal ridere. Il pezzo di mail art che avevo spedito io si era moltiplicato, il numero delle teste era aumentato, e passando per diverse vie era ricapitato proprio a me con la scritta: Perché non partecipi anche tu?

Nell'arte postale non ci sono i diritti d'autore, anzi, all'opposto lo spirito che la caratterizza è quello di invitare gli altri ad usare senza limiti i vari contenuti. Così è possibile che a mia insaputa un mio pezzo venga modificato, arricchito di nuove idee, e ritorni al mio indirizzo. L'americano Cracker Jack Kid addirittura spedisce dei modellini tridimensionali della mia testa.

 

Esagerare

Nel periodo della pubblicazione del primo bollettino Gutai, i membri allora aderenti, tra cui Masatoshi MASANOBU, Tsuruko YAMAZAKI, Yasuo SUMI, Toshio YOSHIDA, Chiyu UEMAE e Michio YOSHIHARA, producevano i loro lavori con grande entusiasmo. La maggior parte delle loro opere era pertanto molto ricca concettualmente e fornì un essenziale trampolino di lancio per il Gutai a seguire. Yoshihara, nell’epoca che può essere considerata l’alba del Gutai, stando di fronte alle nostre opere ci parlò dei conflitti interiori che caratterizzano la produzione di opere, e argomentò anche a proposito dei possibili piani futuri.

Il maestro Yoshihara, proprietario e direttore dell'omonima ditta petrolifera, era conosciuto per la sua linea manageriale molto rigida e per gli ottimi risultati della sua attività.

Anche con noi giovani membri del Gutai fu un leader estremamente severo. Quando arrivavano artisti stranieri venivamo pesantemente rimproverati ogniqualvolta facevamo errori parlando in inglese o usavamo parole non adeguate alla situazione. Di conseguenza assumevamo un atteggiamento passivo di fronte a chi ci veniva a trovare e questo scatenava ancora l'insoddisfazione del maestro.

Limitando a questi gli esempi, diciamo che il maestro era così severo che diversi membri lasciarono il gruppo. Se ne andarono pure artisti come Hideo YOSHIHARA e Yutaka FUNAI che sono stati successivamente riconosciuti nel mondo dell'arte in Giappone, i quali magari avevano proprio un modo di pensare diverso, ma anche artisti al centro del gruppo quali Toichiro FUJIKAWA, Tamiko UEDA, Sadami AZUMA, Hajime Okamoto e Kei ISETANI. A quel punto, il maestro si sentì scoraggiato ed io gli proposi di provare a invitare ad entrare nel Gutai alcuni artisti facenti parte del gruppo ZERO, che a quell'epoca cercavano altrettanto delle forme di arte nuova. Fra me e me però ero preoccupato perché se il maestro Yoshihara avesse continuato a essere così rigido, anche qualora si fossero aggiunti dei nuovi membri, dopo un breve periodo se ne sarebbero andati anche loro. Affrontai l'argomento con Yoshihara e al maestro venne in mente la parole chiave: hattari, esagerare.

Il maestro, quando invitava a esagerare, usava un'espressione dialettale del Kansai, che non era senz'altro elegante, ma detta da un leader estremamente severo come lui, da una parte assumeva una inimitabile nuance ironica, e dall'altra forniva un grande coraggio. Penso che potrebbe essere reinterpretata con "Quando ti impegni appieno in un'azione artistica, và oltre l'idea stessa e và oltre l'esecuzione."

Questa memorabile espressione fu davvero un incoraggiamento efficace specialmente per i nuovi entrati nel gruppo. Sulla base di questa nuova linea guida, Saburo MURAKAMI, Kazuo SHIRAGA, Atsuko TANAKA, Akira KANAYAMA appena entrati nel gruppo e altri che facevano solo lavori di ridotte dimensioni, cominciarono a cimentarsi in grandi opere piene di vigore. Non solo, ma fecero un grande balzo di qualità anche in occasione delle esposizioni Gutai all'aperto e sul palcoscenico.

Di contro, i membri presenti fin dall'inizio non riuscirono a liberarsi del tutto dall'influenza della severità del maestro, e di conseguenza lo sviluppo delle loro opere restava in qualche modo limitato. Recentemente l'interesse per il Gutai è aumentato, ma sono in pochi a conoscere l'alba del Gutai. Quel periodo in cui le opere erano prodotte sotto un insegnamento aspro, ed erano intrise di concetti. Quel periodo in cui il maestro stesso si era unito a noi per stampare a mano il primo bollettino Gutai. Quell'epoca è stata un trampolino di lancio per i membri, da Sadamasa Motonaga in poi, e per tutto il Gutai.

Più ci ripenso e più mi rendo conto di quanto la parola "esagerare" abbia avuto un ruolo cruciale.

 

 

Bisogna Disegnare Male

Quando invito qualcuno a partecipare alla mail art, mi viene spesso ribattuto: ma che disegno potrei fare? Allora io rispondo: va bene qualsiasi cosa che tu vorresti far vedere agli altri. Tuttavia, notando che di fatto nessuno si attiva, quando ne chiedo il motivo la risposta che segue è sempre: mi vergogno perché non sono bravo.

A questo punto io spiego che l’arte postale non è un palcoscenico su cui si compete tecnicamente e quindi non importa se non si è bravi. Le prime volte pensavo ingenuamente che dire così fosse sufficiente, ma la realtà era che tutti tentennavano e ancora non passavano all’azione, dal che improvvisamente mi resi conto del mio incredibile errore. Dicendo: "Non importa se non si è bravi" nascondo delle parole che suonano circa "...ma chiaramente essere bravi è meglio". Un errore madornale. Da allora ho cominciato pertanto a dare un’altra risposta: "Non bisogna essere bravi! Bisogna disegnare male!"

Grazie a queste parole i partecipanti alla mail art cominciarono ad aumentare e a disegnare senza esitazione. La condizione di disegnare male è fondamentale per essere a proprio agio e questo è l'elemento più importante nel disegno, perché permette di tornare al suo punto di origine che sta nella piacevolezza di disegnare e non nell’istituire una severa gara di abilità.

Ma cosa significa non essere bravi o disegnare male? Per rispondere concretamente alla domanda in diverse occasioni ho chiesto a numerose persone di disegnare tenendo fisso questo tema e all’inizio quasi tutti i dipinti che ne risultavano erano confusi e disordinati. Tuttavia, chiedendo ripetutamente di continuare a disegnarne ancora, ho visto nascere uno stile nuovo.

L’azione estremamente contraddittoria di esercitarsi a disegnare male dà vita a un tipo di quadro completamente diverso dai soliti. E questo non si limita al mondo dell'arte postale, perché continuando a disegnare male è davvero possibile generare uno stile brutto personale e unico. E’ così che nasce l'arte più interessante, nuova ed è qui che inizia la strada della creazione.

Da un altro punto di vista, se consideriamo il janken, cioè la morra giapponese, chiunque può vincere facilmente se riesce a stendere la mano con un attimo di ritardo. Quando parlai con il cantante Tomoya TAKAISHI in occasione di un evento in onore dei disabili , Takaishi presentò al pubblico una forma di morra giapponese molto singolare. Cominciò invitando gli spettatori a giocare con lui e quando ad esempio Takaishi mostrava "sasso" e dopo "carta", gli spettatori vincevano facilmente rispondendo rispettivamente con "carta" e "forbice" con un attimo di ritardo. Ma questo era scontato.

Allora Takaishi disse: "Da ora in poi cercate di perdere apposta". In altre parole, se Takaishi avesse ugualmente mostrato "sasso" e dopo "carta", gli spettatori avrebbero dovuto rispondere con "forbice" e "sasso". E qui viene il risultato interessante: pur rispondendo con un secondo di ritardo non si riesce a perdere facilmente. Il 20-30% degli spettatori pur ripetendo il gioco tendeva a sbagliare. Per Takaishi quindi fu facile spiegare come i giapponesi siano abituati a vincere e a sentire solo la necessità di essere bravi.

Lui partecipa alla maratona di Honolulu da 16 anni e quel giorno parlò della gioia di correre con tutte le proprie forze indipendentemente dal risultato. Raccontò anche di un maratoneta cui erano state amputate entrambe le gambe durante la guerra del Vietnam e che nel 1988 partecipò alla maratona di New York usando solo le braccia impiegandoci 5 giorni.

Il mondo dell'arte postale è esattamente così, con lo stesso spirito applicato all’arte. Non c’è un vincitore. Le persone si incontrano all’interno del network rappresentando la propria arte e scambiando opinioni.

[...]

Purtroppo però, sia il discorso della maratona di Takaishi sia le mie affermazioni sul network dell’arte postale sono di fatto di difficile comprensione.

 

 

Arte d'avanguardia è disegnare fiori durante la guerra

L'arte d'avanguardia non si riferisce solo ad un'arte nuova. Nel mondo dell'arte compaiono numerose forme nuove che godono dell'attenzione pubblica, ma esse dovrebbero essere chiamate "tentativi di arte originale", mentre l'arte d'avanguardia è tutt'altra cosa.

Quando parlo con degli amici, mi capita che qualcuno mi proponga delle idee bizzarre concludendo con aspettativa: "Questa è interessante, vero?". Io resto fortemente imbarazzato perché molti mi raccontano le loro idee convinti che presentandomi cose strampalate, Shimamoto sia contento. Ma non è che dei contenuti originali e nuovi siano per forza d'avanguardia.

Vivendo nel proprio contesto sociale e prendendone in considerazione l'andamento, il singolo individuo sviluppa l'abilità di adattarsi ed inserirsi in esso, anche se le informazioni sociali vengono rielaborate individualmente. C'è chi le affronta con un approccio logico e chi le riceve d'istinto. E’ così che ognuno trova la propria risposta per vivere nel suo ambiente sociale indipendentemente dal suo livello di consapevolezza della propria reazione al contesto.

Ma a questo punto il problema è la natura dell'andamento sociale. Il sociologo Durkheim la chiama coesione sociale, dovuta a una coercizione. Tuttavia questa pressione sociale viene avvertita in maniera molto diversa dai singoli. Allo stesso modo in cui ci sono persone che rielaborano i dati sulla base di un breve periodo tenendo conto solo delle cose che si hanno davanti agli occhi, ce ne sono altre che agiscono dopo aver calcolato le possibilità future a lungo termine.

Nel caso degli artisti d'avanguardia, questi non avvertono se non minimamente la pressione sociale: sono poco sensibili al loro contesto ed anzi, potremmo dire che solo una ristretta minoranza ha il senso comune. Sono persone che hanno un loro modo di pensare innato, che puntano a un futuro remoto oltre la realtà prossima, e che propongono le loro idee mediante la loro arte.

Prendendo in considerazione eventi come la Seconda Guerra Mondiale, o lo sviluppo economico ed il conseguente problema ambientale, a distanza di molti anni vengono considerati eventi incredibili e discutibili, ma la storia dimostra che nel loro tempo la gente li riteneva una risposta normale ed ovvia. Gli artisti d'avanguardia però esprimono se stessi indipendentemente dall'andamento sociale e quindi magari disegnano dei fiori anche se la guerra imperversa. Questa è avanguardia.

Ripeto sempre che un quadro è un castello in aria, e il pittore che si abbandona alla fantasia e all'immaginazione non avverte molto la pressione sociale. In altre parole, rappresenta gli aspetti fondamentali dell'essere umano, dopo averli filtrati secondo una larghissima visione di vita e senza il limitante controllo del senso comune. Questa è l'arte d'avanguardia.

Diversi animali, con il pesce gatto in primis, si agitano prima di un grande terremoto, per l'uomo le loro non sono altro che azioni incomprensibili. E’ la stessa cosa.

Gli artisti d’avanguardia vengono spesso ritenuti incomprensibili dalla gente comune e le loro azioni sono considerate come stranezze fatte allo scopo di attirare l'attenzione e stupire la gente. Tuttavia, se proviamo ad analizzare la storia dell'arte, si capisce che le avanguardie hanno rivoluzionato l'arte e hanno suonato un campanello d'allarme verso il modo di vivere dell'uomo, nonostante che al tempo fossero parse solo bizzarrie.

In Giappone, quando le opere di artisti storici di livello mondiale vengono commentate, immancabilmente sono la bellezza e la qualità della tecnica ad essere elogiate. Questo succede in quanto i giapponesi sono un popolo ignorante dal giardino incolto, cui non importa il fatto che le opere siano nate da una mentalità d'avanguardia.

Quando i critici presentano Millet, ad esempio, evidenziano sempre la bellezza dei suoi quadri, ma a me non sembra affatto un pittore particolarmente bravo. Al tempo ce n'erano tantissimi di molto più bravi tecnicamente. Ma considerando il fatto che lo stesso Millet, il quale sotto l'influenza dello stile Rococò dipingeva bellissime principesse in vestiti sfarzosi, cambiò completamente direzione proponendo la bellezza delle scene contadine e di coppie con vestiti poveri, è da elogiare piuttosto il suo atteggiamento di avanguardia.

Lo stesso si può dire di Chardin. In un’epoca in cui era normale aspettarsi dipinti di magnifici fiori in un vaso decorato o di arredamenti lussuosi, Chardin rappresentava una pentola vecchia in cucina, con patate e verdura che in parte ne uscivano. Per di più, è di grandissimo rilievo lo spirito pionieristico di aver spinto sul palcoscenico proprio la natura morta che al tempo era solo un soggetto subordinato.

L'arte d'avanguardia rivoluziona in questo modo il punto di vista della bellezza ed allo stesso tempo è anche una proposta di un nuovo modo di esistere.

 

 

 

Per una Messa al Bando del Pennello

L'opinione comune ritiene che per dipingere non si possa fare a meno di pennello e colori. Finora non è quasi mai esistita una pittura senza questi due elementi, considerati intrattenere un rapporto inscindibile. Eppure il loro rapporto non è dei più pacifici. Anzi, a pensarci, le finalità delle sostanze coloranti sono state subordinate all'esistenza del pennello. E il cammino percorso dalle tinture non è altro, in ragione di ciò, che la storia di una lunga sfida col pennello. La storia di pennelli e colori inizia assieme. Quando si incominciarono ad adoperare pennello e sostanze coloranti, queste ultime non erano in assoluto considerate virtualmente necessarie da chi dipingeva. Con toni e colori il fine pittorico sarebbe potuto essere in teoria raggiunto. È un poco come quando in geometria si parla di una linea: essa non ha spessore. Ma quando poi la si traccia su un foglio, essa un certo spessore lo avrà, come anche i punti geometrici, che dimensione non dovrebbero avere, sul foglio ne assumeranno una. Così è irrealizzabile un colore che non sia accompagnato dalla materia. E quindi si rese necessario adottare sostanze coloranti, accettare la mediazione in materie che esprimono colore, per dar vita a quella pittura che tutti conosciamo. La tragica storia dei colori aveva avuto inizio. Una volta intrapreso tale modo di intendere e di usare le sostanze coloranti, si sono poi succedute varie svolte tecniche. Nell'arco di questa storia sono stati Poussin e Leonardo da Vinci coloro che meno hanno badato al colore come sostanza, quasi sconfiggendone la materialità.

Quando io iniziai a usare le sostanze coloranti non sapevo molto sui pennelli adoperati durante il Rinascimento; ma sono sempre stato certo che ovunque al mondo il pennello ad altro non sia servito e non serva che a esprimere il colore svuotando di forza nella sostanza colorante, cioè ad asservire quest'ultima allo scopo di creare colori di cui la stessa sostanza non sia altro che strumento. In ciò il Giappone ha fornito alcuni dei migliori esempi. Eppure, come una linea priva di spessore non esiste, un colore senza materia non si concretizza. In ogni occasione e luogo la sostanza colorante oppone resistenza al pennello. Chiunque sia l'autore del dipinto, Rembrandt, Pissarro, Van Gogh, Utrillo o altri, si riuscirà sempre a riconoscere chiaramente con cosa esso sia stato fatto. Per quanto l'artista si prodighi a profondere il proprio genio spirituale con il pennello tentando di rimuovere la materialità della colorazione, in ogni tela la sostanza che le da colore rimarrà riconoscibile. Nulla può il pennello contro simile ostilità. Per contro, screpolature ed erosioni, o magari una mutazione di colore sopravvenuta inaspettatamente, ci fanno scoprire la bellezza intrinseca nelle sostanze coloranti.

È nella produzione romantica o in quella surrealista facente capo a Dalì che un pennello vigorosamente attivo serve a strumentalizzare completamente il colore materiale assoggettandolo all'intento narrativo. Utrillo e Vlaminck rappresentano un prezioso monumento alla storia della recalcitranza dei materiali coloranti. Il loro tocco dipinto con la spatola ha chiaramente teso a scansare, quasi scongiurandola, la sostanzialità materiale del colore. Neanch'essi però hanno potuto liberarsene del tutto.
Manet e Van Gogh non hanno fatto altro che spostare l'accento dalla ripetizione visiva dell'oggetto naturale preso a modello alla rappresentazione di immagini soggettive dell'autore, ma per grandi che siano i risultati da essi ottenuti, il loro rapporto con le sostanze coloranti non mutò rispetto ai precedenti. Il materiale colorante resta insomma un mezzo espressivo. Ad esempio, Utrillo, per quanto lasci da parte il pennello e usi la spatola, non farà che mediare sulla tela la propria espressività. Solo il fatto di amalgamare in quella immagine espressiva una bellezza proveniente dalla qualità materiale dei colori lo differenzia da Poussin. Chiunque finora ha fallito ogni tentativo di liquidare col pennello la materia colore, è stato comunque costretto a cedere al compromesso Noi invece oggi non vogliamo più adoperare le qualità dei coloranti (si tratti di oli o smalti) distorcendole. L'ho già detto: un colore senza materia non esiste. Nel fare un quadro, quindi, rappresentazione di un'immagine naturale o di un'idea poco importa, non resta che conservare quella bellezza della materia che sopravvive talora anche alla prova di forza del pennello. Io credo che la prima cosa da fare sia liberare il colore dal pennello. Se in procinto di creare non si getta via il pennello non c'è speranza di emancipare le tinte. Senza pennello le sostanze coloranti prenderanno vita per la prima volta. Al posto del pennello si potrebbe usare con profitto qualsivoglia strumento. Per iniziare, le nude mani o la spatola da pittura. E poi ci sono gli oggetti adoperati dai membri del gruppo Gutai: annaffiatoi, ombrelli, vibratori, pallottolieri, pattini, giocattoli. E poi ancora i piedi, o le armi da fuoco, o altro. E in tutto ciò potrebbe anche ricomparire il pennello, perché non vi è dubbio che in simili elaborazioni innovatrici qualcosa del passato torna in essere. Ma che sia un qualcosa non più ideato per umiliare e uccidere le qualità della materie coloranti, bensì per renderle ancora più vive.

(Shozo Shimamoto in bollettino "Gutai", Osaka, 1° aprile 1957, n. 6)

 

 

 

Arte è Stupire

Quando affermo che l'arte è stupire, la gente resta sorpresa. C'è la tendenza a pensare all'arte come un qualcosa di esteticamente bello, frutto di un lavoro delicato, ma questo è piuttosto quel che direi del mondo dell'artigianato.

L'arte, oppure il gesto artistico, consistono al contrario nello stupire lo spettatore. Ovviamente "stupire" non significa sorprendere con gesti inconsulti e chiassosi.

Si dice che questa sia l'era della società dell'informazione. Una grande quantità di informazioni viene scambiata freneticamente e la gente si illude che ottenere anche una sola informazione in più concorra ad ottenere successo nel lavoro.

Tuttavia, quando ci si concentra sulle informazioni che si hanno davanti agli occhi, è chiaro che non si riuscirà a vedere ciò che è oltre. Come avviene in fotografia, mettendo a fuoco un soggetto vicino, lo sfondo risulta sfocato.

Allo stesso modo in cui i problemi ambientali attuali sono il frutto di una mentalità miope del nostro passato che non ha saputo gettare lo sguardo sul futuro, oggi rischiamo di non accorgerci di una grande crisi che ci colpirà in un futuro non lontano.

L'opera d'arte, però, è un castello fra le nuvole. In una professione normale è necessario camminare prestando molta attenzione a dove si mettono i piedi per evitare di inciampare. Non si può far altro che andare avanti con cautela mantenendo la concentrazione. Tuttavia nel mondo dell'arte, trattandosi di castelli in aria, bisogna al contrario mettere a fuoco l'infinito e sognare il futuro più lontano possibile. Il lavoro dell'artista è esprimere ciò che si è recepito, senza però curarsi della realtà e del modo di vivere umano.

Al presente io mi faccio fare dei disegni sulla testa rasata oppure mi faccio proiettare dei film, ma non allo scopo di fare cose strane. L'opera d'arte è di per sé un'espressione libera. E` così che, mentre guardo in cielo e comincio a fantasticare, mi vengono in mente queste idee in modo spontaneo e naturale. Dipengere un quadro è ugualmente un castello fra le nuvole e non è assolutamente necessario che ci sia un legame con la realtà. L'atto di dipingere è proporre un'espressione libera. Questo è il vero compito dell'artista.

 

 

Intervista a Shozo Shimamoto

- La sua attività artistica sembra caratterizzata da due elementi fortissimi, presenti fin dagli anni ’50: la produzione di “opere” e la creazione di eventi. Che rapporto c’è, nel suo lavoro tra opera ed evento?

S: Una volta facevo delle opere che erano l’espressione di un violento lancio di bottiglie. Sia la televisione che i giornali venivano spesso a vedermi, ma non per pubblicare le opere così create, bensì lo scenario della loro produzione. All’inizio mi è capitato anche di arrabbiarmi quando constatavo che l’opera finale non veniva presentata, ma alla lunga ho cominciato a pensare diversamente e sia a proporre qualche idea per cambiare l’ambientazione, che a tenere un certo atteggiamento apposta per quelle occasioni.
Per questo direi che la relazione tra opera ed evento mi è stata insegnata dai giornalisti.

- Il lancio di bottiglie piene di colore è la tecnica che più caratterizza il suo lavoro. Quali sono le motivazioni che la spinsero a questa soluzione?

S.: I giovani artisti Gutai che si erano raggruppati attorno a Jiro Yoshihara volevano portare in una direzione nuova il lavoro fatto dai maestri calligrafi (in particolare da Nantenbo). Nei caratteri scritti da Nantenbo si trovavano “nijimi: sfumature/sbavature”, “kasure: sbiadimenti”, “tobichiri: schizzi/spruzzi” e “tare: gocciolature” ed altri effetti che non erano esprimibili con la pittura ad olio di quel tempo.
Kazuo Shiraga comincio` a disegnare con i piedi stando sospeso ad una corda fissata sul soffitto, Saburo Murakami aprì buchi saltando e squarciando in volo grandi fogli di carta precedentemente fissati su dei telai. Io, che ero fisicamente debole se confrontato con loro due, pensai di lanciare il colore in bottiglie o a farlo esplodere con un cannone.
E’ da tanto che produco opere mediante lancio di bottiglie. Lanciare con violenza, con dolcezza, impiegare una tela grande o piccola, sono tutte delle varianti. Cerco anche di soddisfare le eventuali richieste degli organizzatori o di adattare i contenuti della performance allo scenario. Penso che il lancio di bottiglie come metodo di pittura sia ancora adesso una forma di studio dell’ignoto. Trovo stimolante più di ogni altra cosa il fatto che si materializzi l’espressione di un quadro imprevedibile. Il significato più grande di questo fenomeno potrebbe proprio essere zen. Tuttavia, anche adesso sono in cammino e per questo non bisogna pensare che io abbia raggiunto l’illuminazione.

- Questo aspetto del suo lavoro ci porta a come lei intende il ruolo dell’artista.

S: Probabilmente io mi discosto parecchio dal concetto di artista che si ha in generale. Il fatto di voler vivere un’esperienza nata dal caso va ancora più avanti della semplice ricerca della libertà, è una realtà fissata nel mio cuore. Sono alla ricerca della verità.

- La tecnica, nella concezione sia occidentale che orientale dell’arte, ha sempre avuto un’importanza fondamentale: dopo le grandi rivoluzioni artistiche del Novecento, di cui Lei è uno dei protagonisti, cosa è la tecnica artistica oggi?

S: La tecnica è un elemento importantissimo nell’arte. Io però cerco un mondo che sia il più distante possibile dalla tecnica artistica tradizionalmente così considerata. Per questo, nel mondo dell’arte (in Giappone), nessuno mi ha dato rilevanza. Sono arrivato all’età di 80 anni e non c’è stato un solo museo in Giappone a farmi una mostra personale.

- Lei ama, ed ha amato molto, lavorare con gruppi di artisti. Che significato ha, per lei, la collaborazione creativa con gli altri?

S: Nel periodo del Gutai, quale primo discepolo di Jiro Yoshihara, avevo il ruolo di organizzatore ed elemento legante del gruppo. Per me però era sempre stato difficile prendere contatto con gli artisti stranieri.
Quando nel 1976 diventai direttore del gruppo Artist Union (AU), venni a sapere della mail art ed entrai in comunicazione con diverse migliaia di artisti di tutto il mondo. Questo sistema di comunicazione con tanti artisti che non conoscevo mi ha reso molto felice. Artist Union (AU) era un gruppo composto di artisti che avevano raggiunto una posizione di relativa importanza nel corso degli anni ’60. Accadde, però, che artisti che si erano laureati in università prestigiose e avevano imparato le tecniche fondamentali, tendevano ad allontanarsi dal gruppo, mentre ne diventavano membri gli artisti meno colti e quelli con handicap fisici o mentali. Questo tipo di artisti senz’altro esce dal quadro dell’arte normalmente conosciuta, ma è grazie a loro che nasce un’ar