Dall'interno all'esterno attraverso un'esplosione.
Milovan Farronato
Un groviglio di linee, una sorta di naturalismo astratto coniugato a una descrizione grafica da disegno infantile. Germinazioni spontanee in un giardino di ferraglie, ammassi di vecchie macchine, di fili elettrici, di valvole rotte. Matasse di segni sovrapposti, forse incontri tra cultura "nera" che sgorga dal sommerso e informazione "bianca" che procede attraverso progressive cancellazioni. Dimensioni sfumate, incerte...
I primi lavori di Matteo Negri erano meccanismi e meccanicismi da discarica imbellettati per un'ultima comparsata. Reperiti nella suburbia milanese, rifatti ex novo con materiali della tradizione scultorea, posizionati comodamente su piedistalli algidi, ecco troneggianti le turbine usurate, gli inestricabili avvolgimenti elettrici di arcaiche lavastoviglie o primigenie asciugatrici; i condensatori logori e gli alternatori divelti. Forse, anche qualche motorino d'avviamento di un qualunque generico ciclomotore vintage deve aver fatto capolino a suo tempo. Reperti disossati e esoscheletri melanconici chiamati a occhieggiare e rivelare la loro natura intimamente scarnificata. Un ultimo armonico e composto saluto in equilibrio per poi, verosimilmente, riposare per sempre in pace. Un interesse verso un'oggettualità fatta di avanzi, scarti, leftover non più funzionanti e tuttavia ingentiliti dall'atto artistico, da un calibrato maquillage incisivo e dimesso allo stesso tempo. La datità della cosa è restituita per intero e negata allo stesso tempo con un sottile gioco da prestigiatore. Visioni in dettaglio e dettagli interni, privati, segreti. Riemersioni. Copie e doppelganger sinistri. Fondi di magazzino abbandonati o chiavi d'accesso ad un'altra, più articolata e misteriosa realtà parallela? O meglio, ad un'altra più misteriosa possibilità di visione di una realtà parallela?
Un po' come accade, forse, anche ora, nei recenti viaggi urbani en plein air di alcune monumentali sculture che nascono in situ e inquadrano scientemente - per desiderio di restituzione e sublimazione - la realtà paesaggistica circostante in altrettante frammentarie visioni. Talvolta sono allarmanti e incombenti cappi che incorniciano visioni souvenir, da cartolina romantica, della Parigi del Louvre o LesInvalides. Altre volte il cappio si trasforma in un lazzo che volteggia e finisce per definire il perimetro ovoidale, idealmente ribaltato, di un'altra prospettiva, che nuovamente incapsula lo sguardo dell'osservatore in un dettaglio selezionato della realtà circostante. Sopravvive l'aspetto bricolage, da costruttore accanito e attento ai meccanismi e agli ingranaggi: questi nodi allentati e queste asole che "impiccano" letteralmente la sguardo sono restituiti come abbinamenti e incastri di vividi moduli LEGO ingigantiti e accessoriati di un'insolita proprietà elastica. Quello che è andato perduto, in questa evoluzione del lavoro di Negri, è l'interesse per ciò che è "dentro" e, in qualche modo, affogato. Quello che è stato aggiunto invece è un incisivo e caratterizzante viraggio Pop, un po' psichedelico e acido, nei colori brillanti e a forte contrasto; e un altrettanto caratterizzante emersione di un mondo infantile fuori scala.
Come è avvenuto il passaggio? Dal desiderio di entrare dentro la realtà e possibilmente vedere come funziona alla volontà di incorniciare la visone. Da una dimensione da patologo atto a ricreare un'anatomia parcellizata a quella del paesaggista che intende sottolineare, sempre in modo bizzarro, degli highlight personali, fino ad arrivare a ricreare mondi sgargianti e ludici. Dalla disfunzionalità alla costruzione, mattone su mattone. Dalla copia in scala reale all'iperbole visiva. Dal dentro al fuori. Dal dettaglio, al mappamondo.
In mezzo ci sono state una moltitudine di mine: un mondo di terracotte detonate, bloccate in uno stadio più o meno avanzato d'esplosione. Trafitte nel loro interno e apertamente squarciate. Potenzialmente minacciose e cromaticamente sgargianti. Ancora contenute nella propria natura sferica appena spanciata a destra o a sinistra, o già genuflesse al suolo come un fiore sbocciato e velocemente appassito. Conservano e trattengono il senso e il valore di rappresentare un contenuto nascosto - in qualche modo accostabile a quello dei carburatori e delle pompe d'iniezione ricreate in studio - e contestualmente già virano lo sguardo del loro autore verso il mondo incombente e politicizzato proprio della simbologia dell'ultima, più recente, stagione produttiva. Il cappio e l'attualità della Primavera araba; la geopolitica di tutta una serie di globi e mappe dei continenti ricreate come combinazioni di LEGO che citano alternativamente Boetti, Mondrian e il Costruttivismo. Le mine sono un Pieno che dichiara un Vuoto. O che permette la fuoriuscita di un Vuoto. Inoltre, già in questa oggettivistica bellica è evidente la possibilità della gigantografia resa ulteriormente manifesta grazie alla riproduzione fotografica che restituisce, al di là del soggetto della rappresentazione, possibili visioni architettoniche surreali e contemporaneamente verosimili. La silhouette di queste esplosioni raffreddate in un momento singolare si traveste infatti da veduta urbana, si camuffa da edilizia futuristica.... Non propriamente residenziale... Tra un frammento e una voragine, tra un traforo e un dettaglio estradossato del corpo detonato potrebbe spuntare una processioni di uomini in divisa. Forse le fotografie meriterebbero di essere più grandi. Più incombenti. Più maestose, lungo la direzione delle recenti sculture pubbliche. Sono un organismo di mezzo, a cavallo tra due dimensioni e due misure. Un essere in bilico verso un processo di crescita che riserverà di certo, in futuro, ulteriori accelerazioni e accumuli di significato.
SPUNTI PER UNO STATEMENT - UNA CONVERSAZIONE
Intervista di Ginevra Addis
Ginevra Addis: Allora al MoMA lo appoggiavo così.
Matteo Negri: Che cosa?
GA: Il registratore.
MN: Ok.
GA: Quindi facciamo finta di essere al MoMA.
MN: Quindi è stato al MoMA?
GA: È stato al MoMA esatto, con Rick Prol, l'ultimo assistente di Basquiat. Iniziamo.
MN: Ok. Dove siamo oggi?
GA: Nello studio di Teo Negri, Matteo Negri, detto Teo per gli amici. Perché facciamo quest'intervista?
MN: Perché è bello fare un punto della situazione, per capire dove vanno le cose. Se ti fermi a pensare un attimo, guardando tutto quello che hai fatto, è più facile andare avanti e capire cos'è successo. No?
GA: Sono d'accordo.
MN: Tu che cosa cerchi in un'intervista così?
GA: Cerco di approfondire i passaggi dei tuoi lavori, e di capire per esempio qual'è il percorso che ti ha portato a realizzare i Kamigami, partendo dagli esordi.
MN: Dai, partiamo!
GA: Questa serie di sculture che hai realizzato per la mostra presso la Galleria Monopoli è intitolata "Kamigami". Perché l'hai chiamata così, e puoi parlarci di questo tuo lavoro?
MN: I Kamigami nascono dagli Omaggi a Mondrian su cui lavoro da diversi anni. Queste ultime sono delle sculture, delle lastre in ferro che è stato piegato, forato, saldato, cesellato, lucidato, cromato, assemblato. In questo modo, su una superficie piana, si forma una composizione di una serie di tappini che hanno il bordo arrotondato, smussato, che ricordano la costruzione verosimile di un lego. Nascono come una ripetizione geometrica di estrusioni nello spazio. Quando ho iniziato a costruirli, mi sono trovato di fronte ad un'enorme superficie geometrica in movimento, e mi è subito venuta in mente l'opera di Mondrian: per costruire un'armonia geometrica in uno spazio astratto, utilizzava i colori piatti come campiture. Nella sua arte c'era una ripetizione che ben si sposava con quella dei lego: mentre per Mondrian questa geometria era una ripetizione, nel mio caso è stata ad un certo punto quasi un'ossessione. È come se mi fossi trovato dentro un tunnel, un labirinto di continue riproduzioni, e l'ho un po' arredato come piace a me. Ho trovato i miei colori, ho lavorato sulle scale cromatiche, sui rapporti tra le altezze di questi volumi e su come posizionarli. Ho cominciato a considerarli non come "Omaggi a", ma come degli oggetti, delle sculture vere e proprie, autonome, a considerarli delle opere che avevano una loro storia, una loro dignità. In una mostra collettiva intitolata "Un Pallino in testa", a Genova presso la galleria ABC-Arte, con Kaufmann, Picco e Pietrosanti, si lavorava sul pallino, un po' legato a Hirst, a Yoyoi Hokusai, come se la ripetizione di questo punto nello spazio generasse un discorso fra gli artisti. In quel momento ho pensato che le mie sculture potessero stare bene non solo appese, ma anche per terra. Ho immaginato di volarci sopra come se fossero delle isole armoniche, dei micro mondi, ordinati, al di fuori del caos e quindi più lirici, staccati da una visione più pop. Così, quando sono ritornato a fare i miei legocromati, con l'effetto a specchio, ho pensato ad un'installazione per la Galleria Monopoli. Pietro Monopoli, il gallerista, mi ha chiesto di realizzare una grande composizione di singoli armonie, che unite fossero un unico lavoro. Ho dunque messo insieme 9 esemplari come un puzzle. In seguito Guido Tosi, un giovane fotografo di Milano, che lavora in analogico, ha iniziato a fotografarli in prospettiva, come se fossero delle planimetrie di città immaginarie. Li ha stampati, sovrapponendo due negativi. È nato come un riflesso di questi due oggetti, come se una planimetria si rispecchiasse esattamente nell'altra identica, creando immediatamente un'immagine. Tutto ciò mi ha fatto subito pensare che questi oggetti sono finiti nel loro soggetto, ma infiniti nella loro visione. Mentre soccombono all'idea che generano (l'immagine prodotta è quasi pop, ripetitiva) nel loro riflettersi generano spazi infiniti. Ti portano dentro, ti attraggono, non ti respingono con la loro freddezza, come potrebbe sembrare guardando il singolo Omaggio a Mondrian. Ho pensato allora che una gabbia di specchi potesse essere il contenitore migliore in cui inserirli: la posizione del lego per terra, dentro una scatola con specchi su tutti e quattro i lati, genera un piano che si riflette infinite volte. Il singolo oggetto diventa quindi un piano infinito, dando maggior respiro all'Omaggio a Mondrian.
GA: E perché l'hai chiamato proprio "Kamigami", scegliendo un termine giapponese per indicare l'infinito?
MN: Kamigami non vuol dire solo infinito, ma famiglia, pluralità. Gami è plurale. Il Kami è un'idea di insieme, di una pluralità di situazioni infinite. Stampando le foto degli Omaggi a Mondrian su carta specchiata, giocando con la carta, piegandola, ho costruito una piccola scatola, con i lati asimmetrici, una costruzione minuziosa, come una specie di origami. Solo che Origami non aveva alcun senso e mi sembrava più appropriato Kamigami.
GA: Continuiamo il discorso sui "Mondrian". Cosa ti ha ispirato di Piet Mondrian che ti ha spinto a realizzare addirittura degli "Omaggi"? Perchè li hai chiamati così?
MN: Omaggi perché, quando mi rapporto con la storia dell'arte, in qualche modo rendo omaggio al protagonista che ha realizzato quella produzione. Non raccontare la loro origine mi sembrava negargli la loro essenza. Come ti dicevo prima c'è quest'ossessione sua molto evidente, lucida. È famosa anche la sua storia: alla fine della sua vita, si è rinchiuso in una stanza che ha dipinto da cima a fondo come se fosse un suo quadro. Questo ci invita a pensare che è come se l'ordine astratto della tela, della sua arte, si sposasse in continuazione con una sua idea molto più profonda. Come se un ordine che manca si ritrovasse solo ad un certo punto in un'astrazione, e questo punto di rapporto tra arte e vita diventa interessante da osservare: non si capisce più se è arte o se è vita. Come se vivesse del tunnel della sua astrazione, la più bella di tutta la sua vita. Diventava interessante! Quindi questi sono Omaggi perché rendono omaggio ad un'idea che sicuramente gli appartiene.
GA: Viana Conti, per il catalogo della mostra a Genova del 2013 "Una cosa divertente che non farò mai più", ha scritto che la tua idea di scultura "rinvia alle forme degli oggetti appartenenti alla vita quotidiana, forme che, rielaborate dall'immaginario dell'artista, si connotano come simulacri rivisitati, segnati dalla sua visione del mondo"1. Potresti commentare?
MN: Mi accorgo ogni lavoro che inizio nasce da un oggetto che colpisce la mia attenzione più di qualunque altro. È come se tra una serie di situazioni, di immagini, ce ne fosse una che vince più di tutte. E solitamente vince in un oggetto. Per esempio: ho visto una cosa che mi ricordava una mina sottomarina. Non era una mina, ma uno stampo di gesso. Ad un certo punto ho detto questa è la cosa giusta, è quello su cui devo lavorare. È come un innamoramento. Diventano delle cose che rapiscono totalmente la mia attenzione. Non esiste nient'altro se non quello. In queste fasi è come se gli oggetti fossero miei, mi appartenessero, inizio a rifarli, a studiarli. Per esempio, il lego ha una costruzione talmente precisa, che solo per rifarlo, modificandone le proporzioni, studiando i rapporti tra le varie altezze, ho impiegato più di un anno. L'ho osservato al microscopio, ed ho eseguito delle scansioni in 3D per ricostruirlo. Se un oggetto diventa mio non mi appartiene. Non riesco a fare un ready-made alla Duchamp, non ho ancora questa libertà nei confronti degli oggetti e forse non mi interessa prenderne uno e decontestualizzarlo. Non riesco! Sento che questi oggetti, nella loro distanza mi devono appartenere. Potrei dire che mi appartengono come immagine o come memoria, ma devono diventare miei come lavori. Questo è il delta con cui da dove sono arrivano a me. Sicuramente quindi sono dei "simulacri rivisitati" dalla mia "visione del mondo".
GA: La stessa critica in seguito afferma: "Determinanti nel processo, che conduce all'esito finale sono pure la componente meccanica, quella manuale, la ritualità dei disegni, degli stampi, delle fusioni, dei prototipi in scala, la scelta di materiali industriali come resina poliestere, fibra di vetro, ferro zincato, vernice da carrozzeria, piombatura. Non si può dimenticare il suo grande interesse, agli esordi, per i rottami industriali che recuperava nelle discariche della periferia milanese, come carburatori, motori, serbatoi, pompe d'iniezione, relitti di elettrodomestici […]"2. Ci descrivi brevemente i passaggi che hai compiuto dagli esordi fino ai lavori riguardanti le mappe?
MN: C'è un processo nel mio "fare artistico" che è legato a quello di antiche tradizioni scultoree. Lavoro per difetto, cioè ogni soluzione cerca in quella successiva il suo miglioramento. Tutti questi processi hanno dunque a che fare con il mio linguaggio da scultore, cioè con quello che uso come materiale e come conoscenza. Quando ho iniziato i lavori recuperando i detriti dalla discarica, era un periodo in cui utilizzavo tantissimo il gesso, la terracotta, tutti quei materiali che avevano un sapore antico, antico-contemporaneo mi permetto di aggiungere. Quando mi sono trovato di fronte a questi motori, ho pensato che questo intreccio di tubi, di pieni-vuoti era intrigante per le forme che avevano. Per me i carburatori sono dei cuori d'aria, hanno una vita che è vissuta. Un motore genera movimento, per lo scoppio che avviene al suo interno e lo rende in qualche modo un pezzo di vita vissuta. Nei rottamai in periferia si trovavano delle cose pazzesche: carburatori di motorini, pompe di lavatrice, perfino una vespa degli anni cinquanta perfettamente in forma. Sai che la vespa era realizzata da una lastra di acciaio che veniva stampata in pressione, come una scultura! Una tecnica che adesso non si utilizza più.
Riappropriarmi di questi oggetti era un po' come dargli una loro vita. Li rifacevo in terracotta, in creta, o con gli stampi in gesso e cera. Usavo la cera con una specie di pigmento: un pigmento nero, che rendeva le forme morbide, poetiche. Successivamente ho realizzato alcuni motori, intagliando un metro cubo di pietra di Vicenza. Una produzione lunga e complicata, eseguita a mano, invece che da un macchinario. Paolo Gallerani, mio professore d'Accademia, lavorava in questo modo: era molto legato al rispetto del singolo materiale. Diceva che bisognava conoscerlo in termini tecnici: bisognava essere in grado di lavorarlo come un artigiano di altissimo livello. Solo questa poteva essere la partenza per un'opera. Penso di aver assimilato questa tradizione quasi per osmosi.
GA: Puoi sottolineare il passaggio dai "motori" alle "mine"?
MN: Il passaggio è avvenuto attraverso la creta, materiale morbido, vivace, con un tempo di lavorazione specifico. L'ho utilizzato inizialmente per alcuni motori, patinando la superficie nella fase finale. Due cose mi hanno affascinato: in primis la malleabilità della materia prima della cottura che nella lavorazione permette la creazione di infinite forme; in secondo luogo, la superficie che accoglie i segni incisi.
Le forme delle mine sono simili a dei vasi: nel loro sviluppo la materia mi ha trascinato in un esercizio tra decorazione ed astrazione. Tutta questa lavorazione rende l'oggetto un po' pesante. Quando sono andato a portarle a cuocere in fornace, ho visto delle ceramiche stupende. Per cui ho pensato: "Bisogna assolutamente provare a smaltarle". Ho fatto prima un engobbio, poi un secondo fuoco, un terzo fuoco, e di colpo si è aperto un mondo di colori. Questa è stata la svolta! Perché la ceramica è colore e materia, è vetro in polvere; quindi avvolge una superficie come la terracotta, la protegge e allo stesso tempo fa esaltare ogni segno che fai. Se disegni con la ceramica una virgola sulla terracotta, quella ceramica diventa un mondo. Fontana ha intuito che quel suo gesto sulla terracotta generava una materia che veramente significava, e creava davvero uno spazio nuovo. Credo che con lui la ceramica abbia avuto il suo apice.
GA: Hai citato Fontana: che importanza hanno avuto le sue "nature" e che fascino hanno esercitato su di te nella creazione delle forme delle "mine", per cui realizzato hai le cosiddette "Underwater Mines", bombe inesplose su cui hai utilizzato diversi materiali ed hai trasformato in acquari?
MN: Ad un certo punto ho lavorato con Giovanni Agosti per un'installazione all'Arengario. Partendo da un lavoro che si chiama Jhonny il Polipo e Frankie la Gru, Agosti mi ha invitato a ragionare su che cosa sarebbe successo se li avessi decontestualizzati. Così abbiamo pensato di posizionare un'enorme gru con una pinza da demolizione, e un "polipo" da discarica, fatti in dimensioni reali con dei materiali poveri, in un ring rosso, un grande tappeto con un bordo di 10 cm in PVC, pieno d'acqua. In questo modo l'acqua fungeva da specchio e rifletteva la gru. Ho inventato una specie di racconto tra una Gru e un Polipo che combattevano in un ipotetico ring, come in una favola, con un reportage fotografico stampato come un giornalino. Dall'installazione abbiamo ideato un gioco in scatola, in miniatura, studiando il packaging della Burago. Da lì è nato il gioco di Jhonny il Polipo e Frankie la Gru in 20 esemplari.
Tutto ciò è stato divertente, ma concettualmente lontanissimo da quello che pensavo del mio lavoro. Da parte mia c'è stata un'apertura incredibile. Quando Agosti ha visto le mine di ceramica, gli sono piaciute subito e mi ha detto: "Dovresti guardare assolutamente le installazioni di Pascali con i suoi oggetti di guerra, con i suoi cannoni, con le sue bombe". Mi suggeriva di guardare come lui lavorava, disponendo gli oggetti in modo non scontato, insolito. Così abbiamo pensato ad un'altra installazione in seguito presentata all'Obraz: lì abbiamo costruito quattro tavoli da Black Jack, sopra i quali abbiamo posizionato queste piccole mine di ceramica. Quello è stato l'inizio di una grande discussione su questi oggetti, su come potermi staccare.
E da lì è nato l'acquario (non per forza tutte le cose sono concatenate). Hirst è stato una grandissima influenza di quel periodo: quando avevo 21 anni ho visto il suo squalo e mi è piaciuto tantissimo. Ho pensato: "Questa è una cosa pazzesca, è proprio quello che ho in mente quando penso al blu dell'oceano, quando sto nuotando nel mare e temo che arrivi uno squalo all'improvviso". Adoro il mare, ma a volte quando vado a nuotare o sono in apnea, ho paura che arrivi uno squalo: ho sempre l'idea che arrivi qualcosa di imminente, che immediatamente decida della tua vita. In Hirst c'è quest'idea di morte. Riguardo a me, la morte mi ha sempre lanciato una sfida: sono stato educato a pormi davanti alla realtà con una domanda, non con un'affermazione. Quando ho visto quest'acquario, in cui non c'è vita perché è fatto di formaldeide, mi è venuta in mente la sensazione dell'acqua come stasi. In Koons, altro grande artista che mi è sempre piaciuto tantissimo ed ho guardato per un periodo, c'è quest'idea di stasi: nella mostra In Equilibrium presenta due palloni da basket sospesi a metà. Ho dunque cominciato a ragionarci e mi sono venuti in mente i vasi: le mine infatti erano lavorate in modo simile ad un vaso, costruite con un tornio che origina una sfera. Inoltre era un periodo in cui si discuteva molto dell'inseminazione artificiale omologa, eterologa. Un giorno ho visto l'immagine di alcuni laboratori: era su un articolo di giornale e raffigurava un enorme deposito di un'azienda americana, una specie di hangar, una cosa che mi ha sempre fatto rabbrividire. Sembrava di essere dentro Matrix. C'erano questi contenitori, di circa 1m x 1m, che contenevano vasi criogenici, con al loro interno ovuli e spermatozoi: erano delle banche del seme. C'erano quindi persone che avevano deciso di congelare tutto questo per un futuro migliore, di costruire una generazione in modo chimico. Non mi interessava se dal punto di vista etico questo fosse giusto o sbagliato, ma quello che mi impressionava era che questi vasi erano già vita per me. Così ad un certo punto mi sono immaginato che, se il mondo fosse finito, fosse andato sott'acqua o fosse successa qualche catastrofe, da questi vasi potesse scaturire una nuova vita.
Negli acquari ho inserito una parete (che ricorda un po' Hirst, un po' Koons) dove ho messo passaggi per i pesci che nuotavano da una parte all'altra, ed erano parte del lavoro. I due vasi erano uguali ma uno era aperto a metà.
GA: Sappiamo infatti che le hai portate in gallerie, fiere e spazi pubblici di tutto il mondo, realizzando ogni volta progetti diversi, come per esempio la mostra intitolata "Ogni cosa era più antica dell'uomo e vibrava di mistero", per l'ex oratorio di San Lupo a Bergamo. Per quell'installazione hai unito le mine sottomarine, inesplose, con la terra. Lo scrittore e giornalista Luca Doninelli in quell'occasione ha affermato che "La fisicità, il legame con la terra, la terrestrità prevalgono su tutte le utopie distruttive. Le bombe, destinate a distruggere, dilaniare, destituire i corpi, si rivelano alla fine esse stesse nient'altro che corpo, luogo, addirittura abitazione dove la vita ricomincia"3. Cosa ci puoi dire in più?
MN: È interessante la sua riflessione perché il progetto nasce da lui: mi ha invitato a riflettere sul libro di Cormac McCarthy La strada, ed a pensare se al suo interno si potesse rintracciare una relazione con la narrazione che emerge dalle mie mine. Non mi ha detto il motivo per cui mi chiedeva di leggerlo, ma se ci fosse stata una relazione mi avrebbe detto il perché. L'ho riletto tre volte in due settimane. È bellissimo: c'è l'esigenza di un rapporto tra un padre e un figlio dentro un mondo che è distrutto, finito. Il padre e figlio sono costretti a fuggire da pericoli che sono naturali e umani, terrestri. C'è quindi un legame con la terra: dove c'è terra c'è disperazione e per questo loro cercano l'oceano, l'acqua, la vita. Ho pensato così di realizzare un'installazione, in quel caso legata al Museo Diocesano di Bergamo, che nella sede dell'ex oratorio di San Lupo presentava opere teatrali. Abbiamo così unito l'installazione alla narrazione teatrale della Strada di McCarthy. Ho selezionato alcuni brani e ho concepito quest'installazione con degli enormi crateri che al piano terra riempivano la parte centrale della Chiesa, che è una specie di torre. Il piano era un enorme cratere di terra finta, con alcuni strati di terra vera ed erba, sopra i quali erano posizionate le mine. Erano tutte molto aperte, distrutte, lavorate al loro interno e rifatte come le mine sottomarine: sembrava che fosse arrivata una mareggiata, e avesse depositato delle mine sul terreno, poi esplose, e al loro interno ci fosse ancora un'altra vita.
Laura Marinoni, mentre leggeva ininterrottamente brani di McCarthy, camminava scalza sull'installazione, come se la relazione con la terra fosse proprio scritta. Alla fine della performance la Marinoni ha squarciato questo tappeto d'erba. Al piano inferiore, nell'ossario, era stato posizionato uno dei miei acquari. C'era un vetro posizionato sopra l'ossario, e sotto questo vetro c'era l'acquario. Nel buio totale della sala, squarciando il tappeto, emergeva quest'unico punto di luce che proveniva dall'acquario. Come se quest'acqua tornasse alla vita.
Ho rivisto successivamente quest'installazione (è stato affascinante rivedere tutto dall'alto perché la chiesa di San Lupo è costruita su tre livelli) come se stessi ammirando un'enorme planimetria dall'alto. Si vedevano questi crateri distribuiti con ordine nello spazio, e ognuno con un punto di colore in mezzo.
GA: Successivamente alle "mine", il lego è stato individuato come cifra stilistica comune di molte tue opere, come i "Mondrian", le "Mappe", i "Globi", il "DNA" e i "Nodi". Milovan Farronato definisce i tuoi primi lavori come "meccanismi e meccanicismi da discarica […] reperiti nella suburbia milanese, rifatti ex novo con materiali della tradizione scultorea […]"4; descrive successivamente il tuo passaggio al lego, con particolare focus sui "Nodi", in questo modo: "Sopravvive l'aspetto bricolage, da costruttore accanito e attento ai meccanismi e agli ingranaggi: questi nodi allentati e queste asole […] sono restituiti come abbinamenti e incastri di vividi moduli lego ingigantiti e accessoriati di un'insolita proprietà elastica"5. Che cosa hai trovato di così attraente nel lego tanto da farlo diventare modulo base necessario della tua arte?
MN: Ad un certo punto mi ha affascinato l'aspetto ludico. Le mine diventavano degli oggetti da gioco: mi ha intrigato il meccanismo della visione che questi oggetti generano. Volevo approfondire la loro architettura interna: mi piaceva molto Buren e altri artisti che avevo visto durante i miei viaggi in Europa. Sulla superficie esterna vi erano degli innesti, che ipoteticamente potevano far scoppiare le bombe: con un cacciavite punteggiavo la superficie, creando dei buchi abbastanza simmetrici tra loro. Il loro stampo negativo dava l'estrusione di fori: uscivano all'esterno. Questa è stata secondo me l'intuizione della superficie in lego. In seguito ho preso dei lingotti, ho iniziato a costruirli, levigandoli prima in gesso e poi in legno. Capivo però che il mio linguaggio legato alla ceramica non andava più bene: era come se ci fosse bisogno di un cambiamento. Le tecniche con cui lavoravo non legavano con il nuovo materiale. Così ho iniziato ad approcciarmi diversamente al legno su cui ho messo stampi silicone; in seguito ho creato delle cere ed ho lavorato con il bronzo. Possiamo dire quindi che il passaggio è stato molto legato al materiale.
Le prime fusioni in bronzo diventavano dei lego un po' devastati o una materia magmatica in emersione. Il bronzo veniva poi lucidato dalla Fonderia Battaglia. Tutto questo per me è stato una vera emozione, suscitata dal passaggio ad un materiale purissimo e nobile, misterioso e affascinante. Il passaggio al bronzo ha poi generato la necessità di stare ad un livello più analitico, per cui ho provato a ricreare un vero lego: mi sono implicato per costruire perfettamente un gioco in scala. Ho studiato i rapporti che ci sono tra i tappini, tra i lingotti, tra un pieno e un vuoto. Con un fabbro ho cercato un procedimento per creare un lingotto che potesse relazionarsi ad un altro. Abbiamo ricostruito il metodo per fare il lego, utilizzando il ferro che nelle sue finiture può diventare cromo, nichel; può essere un materiale lucido puro quasi legato al design. In seguito questa tecnica si è raffinata ed ha portato i lego ad essere sempre più perfetti. Ho poi pensato ad un metodo per costruire i tappini con una pressa. Questa è la genesi del lavoro.
Alle cromature si sono susseguiti i lavori di verniciatura. I primi Mondrian esposti a Fabbrica Eos erano superfici monocrome, con un punto di fusione in alluminio: erano molto astratti, vicini agli anni Settanta.
GA: Parliamo delle tue "Mappe": la serie intitolata "L'Ego Map" si è evoluta, innanzitutto nel titolo, per cui hai creato un'opera che hai chiamato "Quando disponevo le fondamenta della terra"; in quest'ultima cambi il metodo di disposizione dei "tappini lego", e stabilisci ad ogni sporgenza un carattere, utilizzando l'opera come matrice di stampa.
MN: La mappa è Boetti. Durante un soggiorno a Londra ho avuto l'occasione di vedere alla Tate l'antologica a lui dedicata "Flight Plan" dove erano presenti molti lavori sulle mappe. Da lì è scaturito il desiderio di emularlo, di prendere spunto. Ho creato così questa serie di mappe in lego in cui ho giocato tantissimo sui colori, usando i continenti come dei lingotti che si disponevano sulla superficie.
Un giorno ho sentito a messa una frase della Sapienza che ho trovato molto affascinante: ho immaginato come la Sapienza potesse raccontare di essere sempre stata a fianco di Dio che costruisce il mondo e in un certo momento dice di esserne stata artefice con Lui. È la Sapienza che ha generato il mondo. Che cos'è la Sapienza? Una cosa astratta. Forse la Conoscenza. Ho poi pensato: "Sarebbe bello che ad ogni tappino fosse posta una scritta". Per la prima volta ho unito una scritta al lego ed ho costruito una serie di mappe che si ispirano a questa frase. La prima mappa non aveva continenti emersi sul piano. Quest'assenza rendeva l'opera più forte: ci staccava molto dall'idea di mappa geografica, e rendeva lo spazio vuoto una fonte di immagini. Mi sembrava che questa fosse una frase su cui potesse essere interessante ragionare.
GA: E hai cambiato anche i colori poi…
MN: Sì, ho cambiato anche i colori: le superfici sono tutte satinate. Con il carrozziere abbiamo studiato un procedimento per cui la finitura della mappa avviene attraverso una spolverata di sale e di sabbia di quarzo sulla resina; le lettere vengono poi cesellate sulla superficie in modo da essere un rilievo. Una tecnica che la rende simile al velluto e a quei lego morbidi che si danno ai bambini. Attualmente ne sto realizzando alcune in cui uso il silicone non come matrice di stampa, ma come materiale finito.
GA: Che poi sono quelle che fai al contrario: G+M…
MN: Esatto, le sto realizzando completamente al contrario. L'opera è una matrice di stampa.
GA: E questo è un passaggio in più rispetto all'opera della "Sapienza".
MN: Sì. Inoltre è la matrice che genera le opere. Come se fossi di fronte alla Bibbia di Gutenberg nel suo stampo al contrario, le lettere sono tutte al contrario.
GA: Ivan Quaroni, per il catalogo della mostra "In vitro", parlava di una lirica Pop dei tuoi lavori (che è anche quella che hai citato prima), con particolare riferimento ai colori brillanti, che riporti anche nelle macrosculture cittadine, nei "Nodi". Quanto hai guardato o sei stato influenzato dalla "Pop Art"? Chi ammiri di più come artista pop? Inoltre puoi dirci come è nata l'idea dei "Nodi" e come questi si relazionano allo spazio pubblico?
MN: Non mi sento di appartenere ad una categoria in particolare: ritengo che la mia arte abbia reminescenze Pop tanto quanto Minimal.
I Nodi sono forse la parte più complicata: l'unico che apprezzo di più è il cappio che come forma concettuale è quella più riuscita. C'è quest'idea del gioco che si rivela anche qualcosa di pericoloso. Mi piace fare i Nodi, ma è complicatissimo. C'è una lavorazione di mesi: una stratificazione di resina per rendere la curva morbida, ma allo stesso tempo rigida, stratificazioni di vernici e di fondi per far sì che all'esterno queste sculture non ammuffiscano. Un lavoro troppo complesso. E non ho ancora capito cosa di questa complessità mi intrighi.
GA: Ti faccio una domanda più personale: qual è l'opera che hai realizzato che ti piace di più, e che cosa cerchi di comunicare con la tua arte?
MN: Beh, non ho nessun intento comunicativo come progetto. C'è sicuramente una necessità di relazionarmi al punto di genesi delle mie opere. Nascono come idee, come qualcosa di esistente. L'arte e la vita non sono sconnesse. Bisogna capire i rapporti tra le cose. Mi colpisce che una domanda di Cragg è diventata mia, e cambia il modo con cui guardo i miei lavori. Una volta, durante una sua mostra, gli hanno chiesto di poter toccare le sue opere. Lui si è arrabbiato moltissimo ed ha risposto di no. Perché? Sosteneva che il problema della scultura fosse la visione che essa crea, che suscita. Questo per me è interessante!
GA: Quindi per te questa è una domanda costante…
MN: Sì. In un'intervista Cragg racconta di una foto a lui cara: l'immagine mostra degli eschimesi in cerchio che lo lanciano in aria un amico. Come mai? Vogliono fargli vedere l'orizzonte, perché non riesce mai a causa del ghiaccio intorno. Cragg commenta dicendo che l'orizzonte della visione è l'orizzonte della propria aspirazione. Leggendo quest'intervista ho pensato che l'orizzonte dei propri desideri, delle proprie aspirazioni potrebbe essere spalancato da un'opera d'arte. Mi sembra una gran bella aspirazione.
GA: Qual'è l'opera a cui sei più affezionato e che meglio può rappresentare questa tua visione?
MN: Alcune mine con il terzo fuoco, con l'oro, non mi stancano mai. Hanno ancora una storia da raccontare. Anche i Kamigami mi piacciono tantissimo. Sono timido nel guardarli perché ho paura che mi annoino. È come se al loro interno ci fosse l'esigenza di una narrazione che tramite le immagini continua ad esistere ed è infinita.
1 V. Conti, Una cosa divertente che non farò mai più, catalogo della mostra presso Galleria ABC-Arte di Genova (18 gennaio - 19 aprile 2013), ABC-Arte, Nuova Erredi Grafica, Genova, 2013, p.11.
2 ibidem
3 L. Doninelli, Ogni cosa era più antica dell'uomo e vibrava di mistero, catalogo della mostra di bergamo, ex-oratorio di San Lupo, (17 - 29 giugno 2008), p. 3, De sidera, Bergamo 2008.
4 M. Farronato, Una cosa divertente che non farò mai più, catalogo della mostra presso Galleria ABC-Arte di Genova (18 gennaio - 19 aprile 2013), ABC-Arte, Nuova Erredi Grafica, Genova, 2013, p.16
5 ibi, p. 17
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INTERVISTA A MATTEO NEGRI | DISEGNARE NELLO SPAZIO
Conversazione tra Luca Fiore e Matteo Negri. Trattoria Mirta. Milano, 12 novembre 2012. Ore 22.30 circa.
LF: Quindi hai deciso di smettere con i Lego?
MN: Non lo so. Forse cambierò delle cose.
LF: È comunque un momento di svolta
MN: Mi piacerebbe che la mostra di Genova fosse un punto di chiusura con un certo tipo di lavoro. I Lego hanno trovato evoluzioni più felici di altre. Adesso sono di fronte a un punto di domanda. Ma il punto di domanda non è sul fattore "Lego", il problema è a livello della scultura.
LF: In che senso?
MN: Queste sculture si sono imposte nello spazio. Anche nello spazio aperto, pubblico. Il soffitto del mio studio è alto 3 metri e 20. È raggiungendo quell'altezza che ho realizzato le opere di Lego più interessanti. Ora vorrei sviluppare il mio lavoro in relazione con la dimensione massima.
LF: Monumentale.
MN: Sì, monumenti veri. Nelle dimensioni.
LF: Che cosa ti intriga di questo aspetto?
MN: Per fare i nodi di Lego devo realmente fare un nodo con la gomma piuma. Anche nel caso delle sculture più grandi. Le forme che realizzo sono armonie astratte nello spazio, nel vuoto. Il nodo è diventato la misura di uno spazio vuoto.
LF: Conta di più il fattore "nodo" che non il fattore "Lego"?
MN: Sì, sicuramente. Il Lego è per me una sorta di alfabeto che mi ha portato a creare un mio linguaggio normale. È come se fosse la forma del mio disegno.
LF: Da dove ti è venuta l'idea del Lego?
MN: Stavo lavorando con le mine esplose. Ma volevo cambiare direzione. Ero saturo di quelle che erano "costruzioni matte", che si erano trasformate da bombe a contenitori di architetture fantastiche, inventate. Volevo trovare una via che approfondisse il rapporto con l'architettura. Il mio essere scultore è sempre stato legato all'idea di costruzione e cercavo un elemento semplice che la racchiudesse. Il Lego è un oggetto comune che ha in sé l'idea di costruzione. Ha regole e dimensioni date.
LF: Hai iniziato subito dai nodi?
MN: No, all'inizio sono partito dallo studio del Lego in quanto tale. Come struttura.
LF: E il nodo come è nato?
MN: Cambiando materiale. Ho iniziato a fare delle fusioni in ferro. E sono dovuto passare dalla cera. Lavorando a questi mattoncini di Lego in cera, mi è capitato di torcerli. Dopo le prime torsioni ho sentito il bisogno di provare a fare dei nodi. Il nodo è l'opposto di una costruzione geometrica. Ho visto un'altra possibilità in un oggetto di uso comune. Mi sono detto: vediamo cosa succede.
LF: Il nodo ha un significato particolare per te?
MN: È un centro. Ogni scultura ha un centro e dei bracci. Il nodo è questo centro da cui i bracci si originano.
LF: Come reagisce la gente quando vede per la prima volta il tuo lavoro?
MN: Alcuni entrano in galleria pensando sia un negozio di Lego e dicono: «Che Lego è questo? Non l'ho mai visto…». Non la trovo una cosa negativa.
LF: E i bambini?
MN: Strippano. I bambini impazziscono. Sono i miei collezionisti preferiti. Spesso sono loro a convincere i genitori a comprare una mia opera. In fondo io faccio quello che ogni bambino vorrebbe fare: piegare un lego.
LF: Che rapporto c'è tra le mine e i Lego?
MN: Alcuni mi dicono: tu prendi un oggetto pericoloso, le mine, e lo fai diventare giocoso. Poi prendi un oggetto giocoso, i Lego, e lo trasformi in una forma pericolosa, come con il cappio. È come se ci fosse una sorta di magia, per cui lavorando su un tema riconoscibile da tutti puoi far diventare quel tema ancor più vicino.
LF: I Lego nascono da un processo di progettazione molto dettagliato. Come ti accorgi quando questo lavoro "freddo" sfocia in poesia?
MN: Quando le cose funzionano, funzionano. Te ne accorgi. Funzionano magari in modi differenti. Nei Mondrian tutto è giocato sulle cromie, nei nodi sulla bellezza delle curve. Adesso vorrei approfondire il lavoro sul Dna.
LF: Non ti fa paura questo momento di passaggio?
MN: No, è la cosa più bella del mondo.
LF: Perché?
MN: Perché sei libero. Sei libero dal risultato. Mi farebbe più paura se domani mi chiamasse il Moma per fare una personale. Sarei fregato. Perché ho per le mani molti problemi ancora da risolvere.
LF: A chi piacevano le mine piacciono anche i Lego?
MN: No, non per forza.
LF: I Lego funzionano, non ti spaventa il fatto di abbandonarli?
MN: Non ho detto che li abbandono. Ci sono parti di questo lavoro che sono arrivate a un punto per cui devono stare così. Non si può andare oltre. Anche perché non puoi recitare sempre la stessa frase. Dopo un po' uno si annoia. Adesso è come se il discorso dei nodi avesse trovato una sua struttura che potrebbe anche slegarsi dal Lego, ma rimanendo riconoscibile come lavoro mio.
LF: Qual è?
MN: È l'anatomia delle mie sculture. Il fatto che si tratti di strutture nello spazio. Quando ero studente sentivo dire che la scultura è un disegno nello spazio. Allora non capivo. Oggi so che è proprio così. Ed è questo che mi interessa ora. Che si tratti di mine o di Lego diventa marginale.
LF: Come sei arrivato al Dna?
MN: Ha una forma bellissima. Si muove nello spazio. L'elicoide è una forma straordinaria. Ne sono affascinato: è uno spazio pieno e vuoto. Delimita lo spazio, ma lo svuota al tempo stesso. È formato da due fasce simmetriche che si muovono attorno a un cilindro. Ha delle proporzioni perfette. È una geometria vera. È una sfida per uno scultore.
LF: Qui tocchi il tema della vita, perché?
MN: Damien Hirst sul rapporto tra vita e morte ci ha costruito una carriera intera. Soprattutto sull'idea che l'uomo ha della morte. Di cui sappiamo poco. Ma anche della vita, in fondo, sappiamo poco. Resta misteriosa, anche se oggi ne conosciamo la struttura. Il Dna mostra che anche la vita ha a che fare con il design. È un'architettura. È una costruzione, una creazione. Il codice genetico è un vocabolario con cui la vita parla la sua lingua. E funziona a incastro, come il Lego…
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Matteo Negri
Scenari di un Immaginario NeoPop
ABC Arte, Genova
di Viana Conti
L'artista. Il titolo della mostra Una cosa divertente che non farò mai piùcita il saggio di un reportage corrosivo di David Foster Wallace su una settimana di crociera extralusso in una meganave, in cui l'autore ritrae la tipologia dell'americano medio in vacanza nei Caraibi. Innegabile, nel lavoro di scultura, installazione, oggetti, rilievi, fotografia, scenografia, di Matteo Negri (San Donato Milanese,1982), è la forte componente ludica, accostata ad una intensa riflessione sull'evoluzione del soggetto umano dall'infanzia all'età adulta. Il gioco danese LEGO, universalmente noto, con i suoi mattoncini ad incastro, diventa nella sua opera l'elemento modulare minimale da cui muovono gli azzardi della sua ricerca di spazio, forme, relazioni cromatiche, interazioni con ambienti interni ed esterni. Una ricerca la sua che, forzando inizialmente, sovvertendo successivamente, le regole del gioco, intervenendo plasticamente sulla forma, sulla struttura, attraverso sue modalità di scelta e fusione della materia, di alterazione dei colori primari in secondari e terziari, inaugura una modalità costruttiva aperta, affacciata sul vuoto, sul non-limite tra ideazione, progettazione, esecuzione. Suoi referenti costanti sono il rapporto con il globo terracqueo a partire dal mondo interiore, non solo a livello psichico, ma anche genetico e molecolare, e le sue scelte estetiche, relazionate alla storia dell'arte. La sua tesi di laurea sullo scultore inglese Tony Cragg ed il suo approfondimento del lavoro dell'artista statunitense Sol LeWitt, sia pure sul piano delle differenze, devono aver avuto un peso considerevole nel suo iter artistico. Come pure le armonie geometriche a griglia, sulla base dei rossi, blu, gialli e neri, di Piet Mondrian e le mappe ed i planisferi, in cui le nazioni riportano i colori della loro bandiera, di Alighiero e Boetti. In fase formativa, quelle che, nel soggetto bambino, erano le possibilità di gioco, si trasformano nell'adulto nella sfida alla progettualità decisa altrove da altri, per conseguire un'autoconsapevolezza, per ricercare e mettere in atto le proprie pulsioni identitarie in un contesto sociale, politico, culturale, per analizzare le proprie proiezioni sul mondo, i propri investimenti pratici, teorici ed emotivi sull'arte. Evidente è l'assonanza linguistica, a livello fonetico-scritturale, tra il marchio LEGO e l'Ego come struttura psichica, deputata al rapporto con la realtà ed allo scambio con l'altro da sé. Come la componente ludica e costruttiva del LEGO possono cambiare di segno, nel progetto dell'artista, diventando condizioni di rischio e invasione, allo stesso modo quelle mine di profondità, che tanto interesse plastico avevano suscitato nel suo immaginario, uscendodal suo studio-laboratorio non sono più strumenti di morte, ma esplosioni di vita.
I percorsi della mostra. Titolo:Una cosa divertente che non farò mai più. La mostra di Matteo Negri, artista che ama gli spazi intimi come le grandi prospettive, si articola sul dialogo di due percorsi paralleli: uno in esterno, en plein air, e l'altro all'interno dei saloni della galleria ABC-ARTE. Come già a Parigi ed a Tokyo, infatti, il progetto espositivo si estende al tessuto metropolitano genovese, si confronta con gli insediamenti architettonici della Superba e con i nastri grigi dell'asfalto, con il traffico cittadino e con gli sguardi sorpresi e compiaciuti dei turisti, portando i suoi monumentali nodi colorati, prevalentemente nautici, decisamente Neo-Pop, in punti cruciali della città come appunto le piazze De Ferrari e Largo Eros Lanfranco, l'incrocio di via XX Settembre con Via alla Porta degli Archi, dove, solenne e ironico, al tempo stesso, un monumentale cappio giallo,giàsimbolo rivoluzionario, in Egitto, della Primavera araba(At the end of the day, cm. 220x60x60, ferro e resina laccati, su base di ferro) si presenta, nella sua muta emblematicità. Entrando in galleria il visitatore si confronta con una stampa lambda (Big Landscape, su carta fotografica Epson e plexiglass, cm.50x70) che rappresenta delle mine, nei colori azzurro, arancio, giallo, rosso, bruno, nero, sul tappeto verde di un biliardo da carambola: annuncio di una partita dagli esiti imprevisti. Di fronte, in ceramica invetriata, tre lucenti mine di profondità, per così dire, "esplose" (Ground Zero) trasformano, positivamente, in un coinvolgente scenario di estetica barocca, gli esiti di un possibile attentato terroristico. Proseguendo, lo spettatore si ritrova in una stanza buia, illuminata da uno spot di luce accecante, puntato sulla struttura bianca, come un fantasma, iperdimensionata, a doppia elica, del codice genetico, in ferro e resina laccati, (The source code, 2012, cm. 300x100x100). Sul soffitto una mobile nuvola di palloncini bianchi, in parte ricoperti di vernice fluorescente, trascrive, in una sorta di spartito, che riconduce all'autoritratto dell'artista, il processo di generazione cellulare in cui si profila la formula dell'organismo vivente. Nella vetrina della sede della banca Monte dei Paschi di Siena, affacciata su via Roma, s'impenna, calcando fieramente un bianco castello-fortezza, un cavallo di bronzo, con tanto di cavaliere in sella, ideato dall'artista nelle sue visionarie rievocazioni dell'infanzia. Nella trasposizione sul terreno dell'arte dei nodi della nautica - a gasse, di avvolgimento, di accorciamento, di arresto, di scotta, di giunzione, del cappuccino, inglesi - l'artista ne ha progettato uno con i colori della bandiera di Genova, intitolato Nodo Margherita, Genova, cm.135x135x20. Luminosissima è la sala che accogliequattro esemplari differenti, a parete, del rilievo L'Ego Mondrian, composizione su fondo di ferro cromato e laccato, cm. 55x55x18, di lingotti multicolori, che dialoga, di fronte, con L'Ego Mappa, del 2012, in ferro cromato e resina laccata, cm. 75x120x6, in cui i cinque continenti sono empaticamente colorati (rossa l'America, gialla l'Europa, verde l'Asia, azzurra l'Africa, bianca l'Oceania) opera dedicata all'artista scomparso Alighiero e Boetti, uno dei suoi maggiori referenti nella storia dell'arte. Allo stesso artista rinviano Il mappamondo, intitolato L'Ego Globe, che misura 45 cm. di diametro, le dieci mappe dei continenti, cromaticamente diversificati, su fondo LEGO bianco di resina laccata, cm. 50x75x5, dell'ultima sala, visione di un mondo a colori di un artista che, da bambino, ha sognato di stendere, ai suoi piedi, il globo terrestre.
Lettura critica. Quelle barriere che nell'inventività infantile rappresentavano l'insormontabile, diventano sfida propositiva nell'esistenza. Ed ecco che il pezzo mancante, nel gioco, nell'atelier si crea, il muro si abbatte, la lamiera si piega, i pilastri si annodano, i nodi si sciolgono, la materia diventa manipolabile. Uscendo dalla propria cameretta dei sogni, la dimensione mini diventa macro, il progetto si espande dall'interno all'esterno per entrare nel mondo. È percepibile, in Matteo Negri, una visione cartografica del globo, un'attenzione paleogeografica alla deriva dei continenti, a partire dalle originarie Pangea e Panthalassa. La sua idea di scultura rinvia alla forme degli oggetti appartenenti alla vita quotidiana, forme che, rielaborate dall'immaginario dell'artista, si connotano come simulacri rivisitati, segnati dalla sua visione del mondo. Idealmente le sue sculture sono destinate a spazi aperti come le piazze, i ponti, gli incroci stradali, le grandi vedute urbane, dove aspirano ad interagire con le presenze del tessuto metropolitano, come la segnaletica, i semafori, i lampioni, gli alberi, le architetture commerciali e quelle museali, incorniciando talvolta, nell'anello di un nodo, una prospettiva, un monumento. Nell'ambito di una mostra recente, le sue opere disseminate en plein air a Parigi, ad esempio, si rapportano ora al complesso architettonico degli Invalides ora al Louvre. Forte è la loro componente Pop, sia a livello figurativo, che dimensionale, che cromatico. Innegabile anche la loro valenza provocatoria. Determinanti nel processo, che conduce all'esito finale, sono pure la componente meccanica, quella manuale, la ritualità dei disegni, degli stampi, delle fusioni, dei prototipi in scala, la scelta di materiali industriali come resina poliestere, fibra di vetro, ferro zincato, vernice da carrozzeria, piombatura.Non si può dimenticare il suo grande interesse, agli esordi, per i rottami industriali che recuperava nelle discariche della periferia milanese, come carburatori, motori, serbatoi, pompe d'iniezione, relitti di elettrodomestici, sorta di corpi senz'organi, defunzionalizzati, abbandonati in frammenti, eppure ancora carichi, nonostante le ferite dell'usura, di un'energia segreta, di un vissuto che li rendeva seducenti, comunicativi, intrisi di una potenziale vitalità. Analogo fascino dovevano aver esercitato le mine di profondità, oggetti insieme inquietanti e auratici, levigati come gioielli o dilaniati come crateri, particolarmente a partire dalla realizzazione in ceramica, nella mitica Albissola, in Liguria, dove avevano lavorato in passato, tra gli altri grandi, Lucio Fontana e Leoncillo. La ceramica infatti è per questo artista un altro mezzo espressivo investito del forte rapporto con la terra, denso di gestualità, di tensione, di sorpresa a livello di cottura, di reazioni cromatiche, di effetti della cristallina, di magia del blu indiano. Ancora un'avventura con la plasmabilità erotica della materia, con la modellazione fisica e tattile della forma. Nodi, avvolgimenti, schiacciamenti, torsioni a due e a tre, sono significativa metafora della visione del mondo, interiore ed esteriore, di Matteo Negri, un artista che piegando con la forza dell'immaginario e del corpo il gioco della vita al suo disegno progettuale, ottiene l'esito di snodare simbolicamente il suo Ego.
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Lo spazio in azione
Alberto Fiz
Prosumer. Nella società della connessione perenne, anche lo spettatore può essere, allo stesso tempo, produttore e consumatore d’informazioni.
Lo sa bene Matteo Negri che nel suo ultimo lavoro, certamente il più riuscito, utilizza l’opera d’arte come catalizzatore d’immagini o di comportamenti, dove l’atto di chi osserva diventa parte integrante di un’instabilità consustanziale. Piano Piano è una scultura polimaterica del 2016 in ferro zincato, cromo liquido, vetro temperato e pellicola che ha la caratteristica di assorbire l’ambiente circostante. Il prisma inclinato, disposto su un piano ortogonale, acquisisce nuovi dati in relazione alla luce e al movimento che s’imprimono sulla superficie. Siamo di fronte a un caleidoscopio che riflette su se stesso integrando le variabili del mondo esterno, senza la necessità di ricorrere a schemi precostituiti: la gamma di colori appare pressoché infinita grazie alla pellicola su lastra di vetro reattiva alla visione. Ciascun spettatore identifica la propria forma e la propria cromia diventando il protagonista della metamorfosi in base a un processo che coinvolge il nostro stato d’animo, prima ancora del nostro occhio. Per superare l’inerzia, dunque, l’opera assorbe informazioni e contenuti che vengono istantaneamente trasformati in dati sensibili; il meccanismo passa attraverso le forme tradizionali evitando accuratamente l’uso delle tecnologie e ciò accentua l’ambiguità di una visione transitoria, mai definitiva, interrotta da continui transiti e interferenze, che ne enfatizzano il significato ponendo la componente plastica in una zona precaria di percezione.
Piano Piano va maneggiata con cura e sembra ripercorrere le esperienze di Light and Space, il gruppo di artisti californiano di cui hanno fatto parte Robert Irwin, James Turrell, Bruce Nauman e Larry Bell. Proprio quest’ultimo, nelle sue installazioni ambientali, ha utilizzato materiali rifrangenti e riflettenti come specchi e vetri colorati. L’atteggiamento, tuttavia, appare assai differente in quanto per Matteo Negri ciò che conta è far interagire differenti procedimenti linguistici modificando il pattern visivo attraverso la continua rigenerazione del colore-forma seguendo il percorso di una virtualità simulata, lenta e non aggressiva dove la scultura sembra rinunciare alla sua concretezza fisica. “È il frammento del mondo che si proietta nello spazio retinico chiamato in causa” (1), ha scritto Maurice Merleau-Ponty ne la Fenomenologia della percezione. Questo desiderio di svincolare le immagini dal loro percorso naturale caratterizza anche un altro intervento di Matteo Negri, ovvero Navigator, una trappola per catturare i dati effimeri della realtà. La trottola, formata da due coni saldati alla base, è una sorta di scultura portatile, un oggetto specchiante e misterioso che si attiva solo in relazione all’ambiente circostante creando continue interferenze tra gli elementi in un vortice d’immagini che si sov