«La pittura in sé»
Astrazione analitica e Supports/Surfaces
Ulrich Erben, Pino Pinelli, Claude Viallat.
Dominique Stella
Quando la pittura diventa oggetto della pittura e non serve più a rappresentare, suggerire, esprimere, ma al contrario ha per unico obiettivo quello di sublimare il solo fatto di esistere in modo autonomo, come colore declinato, contrastato, come materia portatrice di luce, di digradazioni, di sfumature sul supporto della tela o su altri materiali suscettibili di metterla in scena, allora la pittura si definisce nella propria finalità e non è più solamente un mezzo, essa diventa soggetto.
Nella storia recente della pittura, in particolare nel corso degli anni '70 in Italia, in Francia, in Europa in generale ma anche negli Stati Uniti, si è posta la questione della posterità del monocromo, avendo quest'ultimo occupato un posto maggiore nel lavoro degli artisti del dopoguerra da Fontana, a Klein, passando per il gruppo ZERO o ancora Manzoni in Italia o Rauschenberg negli Stati Uniti con i suoi White Paintings del 1951. Per riassumere rapidamente lo stato di spirito che animava la generazione “post-war”, questa citazione di Piero Manzoni stabilisce il nuovo rapporto dell'artista con la pittura in un desiderio di liberazione da ogni costrizione, da ogni sapere. In Libera dimensione, pubblicato nel n° 2 di Azimuth nel 1960, egli proclama: «È per me quindi oggi incomprensibile l’artista che stabilisce rigorosamente i limiti di una superficie su cui collocare in un rapporto esatto, in rigoroso equilibrio, forme e colori. [...] Inutili sono anche qui tutti i problemi di colore, ogni questione di rapporto cromatico (anche se si tratta di modulazioni di tono); possiamo solo stendere un unico colore, o piuttosto ancora tendere un’unica superficie ininterrotta e continua [...] La questione per me è dare una superficie integralmente bianca (anzi integralmente incolore, neutra) al di fuori di ogni fenomeno pittorico, di ogni intervento estraneo al valore di superficie; un bianco che non è un paesaggio polare, una materia evocatrice o una bella materia, una sensazione o un simbolo od altro ancora; una superficie bianca che è una superficie bianca e basta (una superficie incolore che è una superficie incolore) anzi, meglio ancora, che è e basta...». Questo postulato della non pittura, del non colore, della non rappresentazione che Piero Manzoni pone in una definizione di concettualizzazione di un linguaggio che si compie solamente attraverso il gesto provocatore e la volontà di superare l'estetica tradizionale e che fu condiviso da numerosi artisti della sua generazione, subirà un'evoluzione alcuni anni più tardi, a partire dalla fine degli anni '60.
Una nuova ricerca nasce dal rifiuto dei canoni classici, certo, ma anche dal rifiuto dell'espressionismo che dall'inizio degli anni '50 si afferma, attraverso un'astrazione gestuale, in una pittura di slancio, di pathos, liberatrice di forze vitali in cui l'uomo rimane il protagonista maggiore. In rottura con tutte le tendenze passate, tra pittura e non pittura, al di là dell'espressionismo e integrando la monocromia come concetto fondatore, una certa astrazione pittorica trova allora il proprio posto. Le viene conferita un'identità che integra i dati concettuali della non pittura, in particolare rifiutando di limitare la pratica pittorica all'interno della superficie di un quadro definito nella geometria fissa dei quattro lati di una tela tesa su un telaio, ma anche mantenendo l'utilizzo del colore per le sue qualità proprie legate alla consistenza, alle tonalità, ai sapori stessi delle sfumature e dei loro effetti subliminali. Un altro assioma di questa nuova tendenza prescrive i principi di rappresentazione che allora applicavano i pittori della pop art, per i quali la pittura resta un mezzo, uno strumento di espressione, di figurazione, di messa in causa sociale, ma non è affatto un modo esplorativo del proprio potenziale.
Prossimi a una certa vena concettuale, per la teorizzazione dei propri impegni, in quest'epoca di rinnovamento che è la fine degli anni '60, alcuni movimenti si raggruppano e sviluppano una ricerca le cui ramificazioni si ritrovano in Italia con la pittura analitica, di cui Pino Pinelli è il capofila, ma anche in Francia dove sono attivi da una parte il quartetto composto da Daniel Buren, Olivier Mosset, Michel Parmentier e Niele Toroni, che operano nella contraddizione che rinnega la pittura al tempo stesso praticandola, e dall'altra parte il gruppo Supports/Surfaces animato da Claude Viallat. Ugualmente nel resto dell'Europa, soprattutto in Inghilterra, in Germania e in Olanda, la pittura si reinventa. Un artista come Alan Charlton afferma il carattere ostinato e assoluto di una certa tonalità di grigi, definendo così la propria pittura: «abstract, direct, urban, basic, modern, pure, simple, silent, honest, absolute» (astratta, diretta, urbana, basica, moderna, pura, semplice, silenziosa, onesta, assoluta). In Germania, Ulrich Erben, di ritorno dagli Stati Uniti dove soggiorna nel 1967, esplora le potenzialità espressive del bianco che egli compone, nel 1972, insieme alla luce. Egli cerca allora di superare i limiti della tela per integrare le sue “superfici” in una dimensione spaziale attraverso l'utilizzo di punti luminosi laterali.
Questi artisti si trovano al culmine della loro energia creativa, esplorando la breccia che separa il concettualismo - al quale sono legati da un'affinità elettiva - dal “feticismo” pittorico, che limita l'arte al proprio valore di rappresentazione, che presto diventa valore commerciale. Oscillando tra questi due estremi e facendo uso della pittura secondo i criteri derivati dal monocromo, che accolgono come principio fondatore la libertà assoluta di creazione e l'utilizzo della pittura e del colore come mezzo di affermazione di questa libertà, un certo tipo di astrazione si definisce allora, al quale viene dato il nome di astrazione analitica. La formulazione del termine astrazione analitica, proposto in due testi di Bernard Lamarche-Vadel intende al tempo stesso rendere conto di un'attualità - «Fratture del monocromo oggi in Europa» - e pensare questa pittura in una storia con le sue trasformazioni - «Da Supports/Surfaces all'astrazione analitica» -, giustificando questa associazione attraverso «una medesima preoccupazione di riduzione della pittura». Questi testi s'inscrivono nella storia della pittura analitica di cui Filiberto Menna aveva già posto i principi fondatori in uno scritto del 1973, «La linea analitica dell'arte moderna», che fu pubblicato nel catalogo della mostra all'ARC, diretta da Lamarche-Vadel nel 1978. Indicato in nota, il testo di Menna, come quello di Klaus Honnef in seguito, si riferisce a un procedimento caratterizzato dall'articolazione di un'analisi concettuale con «l'irrazionalità del risultato pittorico e l'esperienza della sua sensualità». Questa definizione permette di associare la pittura analitica alle ricerche del gruppo francese Supports/Surfaces di cui Vanina Costa precisa gli obiettivi «Supports/Surfaces si è dedicato a enunciare i componenti della “pittura”: la tela, perlopiù senza telaio, le sue dimensioni, il colore e la sua estensione, il luogo e l'allestimento, per farla finita con il quadro come illusione di un tema o come profusione sentimentale degli stati d'animo dell'artista. “Dipingere” non significa mai “dipingere qualcosa” (e soprattutto non se stessi). È un lavoro sul metodo».
Critici italiani, francesi e tedeschi sono d'accordo nel descrivere un movimento che al di là dell'Europa adotta spesso il monocromo come postulato, ma che molto presto vedrà nascere un'evoluzione che si dedicherà prima di tutto al lavoro della materia, all'esplorazione delle vibrazioni differenziate dei colori, e all'affermazione dell'esistenza dell'opera come elemento partecipante alla composizione dello spazio di cui diviene un elemento costruttivo. Questa evoluzione provoca del resto divergenze all'interno del movimento analitico, in cui alcuni membri persistono nella radicalità di un procedimento dominato dall'ascetismo assoluto e dall'attaccamento definitivo alla monocromia, come Pino Pinelli, e altri si concedono invece composizioni e variazioni, giungendo fino alla policromia come Claude Viallat e Ulrich Erben, ma sempre nell'intenzione prima di esaltare la pittura stessa.
L'esposizione presenta tre artisti determinanti di questa tendenza europea che unisce Pittura analitica e Supports/Surfaces nella stessa volontà di utilizzare la pittura come mezzo in grado di entrare in vibrazione con lo spazio e facendo corpo con quest'ultimo in un'intenzione di occuparlo, di frammentarlo a volte, ma in ogni caso di interagire con esso. In questo panorama Ulrich Erben è uno dei principali coloristi tedeschi della sua generazione; egli costruisce la sua opera secondo una singolarità che combina al tempo stesso la ricerca sul colore, e una composizione di ispirazione geometrica. Il suo intento è innanzitutto quello di esplorare le componenti della materia colorata nell'espressione di una percezione sensibile dello spazio. Si è servito della superficie piana della tela come supporto alle variazioni sottili della materia pittorica, della quale studia le infinite modulazioni per comunicarne la forza suggestiva. Il suo soggiorno negli Stati Uniti sembra averlo avvicinato a un'ispirazione americana, che si esprime in un rapporto sottile con l'arte di Sam Francis, suggerito dall'occupazione della superficie della tela attraverso la totalità dell'impressione pittorica. Del resto l'esplorazione delle variazioni atmosferiche delle sfumature colorate, organizzate secondo una definizione geometrica, si avvicina alle ricerche dell'astrazione geometrica di artisti come Marc Rothko o ancora Josef Albers che, attraverso L'interazione dei colori proponeva esercizi che permettono di stabilire il valore e la tinta, per mezzo di rettangoli ritagliati in carta colorata, al fine di poter guardare un colore in diversi contesti.
Questa analisi sensoriale del colore offre, in Erben, una fonte inesauribile di confronti che va dall'esplorazione delle più sottili sfumature e vibrazioni del bianco nei suoi primi lavori, alla sovrapposizione di tinte contrastate e soavi nei lavori più recenti. Nella sua arte, più che una sperimentazione sui rapporti e contrasti dei colori in una volontà di perturbazione ottica, Erben favorisce la suggestione, la sensazione e il rapporto intuitivo con il mondo esplorando le vie sensibili della percezione. Malgrado il rigore delle sue costruzioni, Erben esplora il momento dell'incrinatura tra un colore e l'altro, senza che questo sia inteso come una sovrapposizione, e neppure un'interconnessione delle masse colorate; si tratta di un momento di passaggio che confonde lo sguardo in un'illusione di “sfumatura” suggerendo la linea di un orizzonte nella lontananza di un cielo nebbioso.
Il lavoro del colore in Erben, pittore totalmente astratto, oscilla tra suggestione ed emozione, che nascono dal gesto preciso della mano che stende la materia pittorica e dall'esplorazione delle sfumature del colore, inconsapevolmente: «Il significato emerge, dice egli non sono io che lo inserisco con il mio pensiero...». La pittura di Erben somiglia a un'enunciazione poetica del mondo. La sua intuizione del mondo agisce come se egli ne offrisse una visione, come se lo definisse in una nozione di paesaggio che resta sempre in suggestione e mai in rappresentazione. La sua arte appartiene a una zona di grande sensibilità, a un sentimento quasi estatico che nasce da una linea posta sul quadro che sembra stabilire un orizzonte, unendo il cielo con la terra. Giovanni Maria Accame diceva della sua pittura: «Voglio affermare una prima distinzione essenziale e necessaria per capire le opere di Erben: la sua pratica pittorica è dentro la pittura, il colore è pensato e si muove in una dimensione riflessiva, ma non vuole essere un'idea priva di emozione, non appartiene a un concettualismo microemotivo e immateriale.
Erben pensa al colore, ma ne conserva la natura e la memoria; l’esperienza del colore si collega all’esperienza del paesaggio, della struttura urbana, delle stanze, dei luoghi fisicamente vissuti o intensamente immaginati. Colore e spazio si stringono nella forma che, in questo senso, è dimensione sensibile, misura di un modo di collegare, da parte di Erben, il proprio rapporto tra sé e il mondo».
Quanto a Pino Pinelli, egli è uno dei principali sostenitori del movimento italiano Pittura analitica chiamato anche Pittura, Pittura. Anch'egli partecipa a questa ricerca di un colore assoluto, secondo la pratica del monocromo. Pino Pinelli, che ha abbandonato la forma tradizionale del quadro, presenta il suo lavoro in una volontà di disseminazione che costruisce lo spazio attraverso articolazioni di elementi di un unico colore. A partire dall'inizio degli anni '70, Pino Pinelli, affronta la problematica della tradizione e del rinnovamento in un'esplorazione delle potenzialità della pittura e della sua struttura stessa, come se volesse penetrarne il mistero, come se non smettesse di concentrarsi sulla pittura, di mostrare e di pensare lo sguardo che essa suscita.
Nei primi lavori, dal 1971 al 1975, appartenenti alle serie delle Topologie e dei Monocromi, la sua ricerca si costruisce nell'espressione di una tensione, di una vibrazione che sembra voler catturare l'anima stessa della pittura, volendo inconsciamente estrarla dalle contingenze vincolanti. Le Topologie di Pinelli sono interrogazioni sui limiti imposti al colore in una geometria che si fa sempre più mutevole. Lo spazio elaborato secondo leggi di prospettiva rigorose, sfugge alla rigidità della norma e propone un progetto di analisi concettuale di messa in causa della continuità spaziale e della rappresentazione. In questo primo periodo di produzione, i limiti stessi del quadro sono oggetto, in Pinelli, di un'operazione di decostruzione che appare nella deformazione delle strutture abbozzate sulla tela che l'artista sottomette a deformazioni ottiche, generando una perturbazione volontaria della percezione geometrica del telaio. Prospettive molle, quadro del 1972, induce questa messa in causa di una prospettiva razionale, normata, che lascerebbe spazio solo a una limitazione cartesiana della percezione. L'insieme del lavoro di Pino Pinelli, in questa prima fase di riflessione, contribuisce a determinare un sistema di alterazione delle regole logiche della rappresentazione geometrizzata, secondo una ricerca intuitiva e concettuale sottolineata dal titolo stesso delle opere, come: Alterazione del rettangolo, 1971, Alterazione del segmento, 1972.
In un secondo tempo, concentrandosi sulla definizione di superficie monocroma, egli ne perturba l'unicità attraverso il gioco di un doppio quadro di colore a volte nettamente contrastato o spesso di una sfumatura appena percepibile, che delimita una superficie interna in modo aleatorio, contribuendo a decostruire l'idea di quadro e accentuando la bidimensionalità della superficie monocroma centrale. È nel corso di queste sperimentazioni che la monocromia raggiunge nell'opera di Pinelli una pienezza che a poco a poco sfuggirà alla rettitudine della tela, attraverso la riduzione progressiva di questo quadro fittizio che racchiudeva l'area centrale monocroma, e di cui la presenza andrà diminuendo, alterandosi, fino alla sua quasi completa sparizione nel 1975. In questa serie di opere tutte denominate con un titolo comune, Pittura, l'oggetto reale del lavoro dell'artista è la ricerca di un movimento intuitivo, sotterraneo, magmatico della materia pittorica che si anima di colori ondeggianti, di fluttuazioni appena percepibili da cui risulta una forza attrattiva e magnetica che somiglia alla respirazione stessa della pittura. Queste esperienze attraverso le quali l'artista si esprime spesso su tele di grande formato, condussero il critico Filiberto Menna a catalogare l'opera dell'artista all'interno della corrente artistica che egli denominò Pittura analitica.
A partire dal 1975, la radicalità del metodo di Pino Pinelli lo porta sempre più verso un lavoro che provoca e assume la rottura nella logica delle pratiche e degli studi dei suoi predecessori: questione dei limiti, come l'hanno esplorata Pollock, Kaprow e Fluxus, questione del supporto (delle superfici e delle strutture), dei fondamenti culturali, dell'archeologia dell'arte, dunque del suo radicamento nella società. La questione del corpo della pittura si fa allora più incisiva nell'artista insoddisfatto della neutralità della superficie piana e limitata del quadro. Alla riduzione delle forme corrisponde un ritorno di corporalità dell'opera, un'accentuazione della sua presenza fisica nello spazio. Come scrive Giovanni Maria Accame: «Alla diminuzione dell’espressività, [corrisponde] un’accresciuta presenza fisica e influenza percettiva. Presenza quantitativamente aumentata non solo per il mezzo di una maggiorazione del volume dei singoli lavori, ma anche, molto più significativamente, per l’articolazione in più elementi di un’unica opera».
Questa frammentazione, che il critico chiama disseminazione dell'opera, appare come un'esplorazione dello spazio resa effettiva dalla modularità del quadro che si ripete in diversi elementi distintivi, senza che questo implichi l'idea di esplosione e parcellizzazione di un concetto centrato. Pinelli propone una segmentazione che induce una continuità nel gesto pittorico che si ripete e afferma così più fortemente la propria presenza. La ripetizione è l'espressione di una materialità che dona all'opera una forza riflessiva. Ogni elemento rigorosamente monocromo, di struttura, colore e dimensione quasi identici, ha esistenza solo attraverso l'interazione generata dal proprio collocamento sulla superficie di un muro, o all'intersecazione di due muri, secondo una composizione geometricamente studiata dall'artista. Lo spazio pittorico si costruisce così per articolazioni di elementi monocromi. Le Disseminazioni di Pino Pinelli, raggiungono la serialità dei monocromi di Alan Charlton o di Carmengloria Morales e corrispondono a questa apertura del quadro attraverso il legame che egli instaura tra lo spazio pittorico e lo spazio reale. Il critico francese Bernard Lamarche-Vadel inventa per Pino Pinelli la tematica dell'induzione, attraverso la quale il monocromo, facendo coesistere la superficie colorata e l'oggetto quadro, porta a delimitare la pittura attraverso il suo contesto. Indurre significa rivolgere un interesse particolare alla relazione della pittura con il suo ambiente, con lo spazio espositivo ma anche con quello tra i dipinti. Dal momento che l'esistenza dell'opera si stabilisce sempre più all'esterno del dipinto, la pittura si emancipa per divenire elemento motore di un'esistenza autonoma liberata dal suo quadro.
Questa evoluzione del linguaggio pittorico fu compiuta da Pino Pinelli in una ricerca che al di là della spazialità dell'opera impegnava anche l'artista nella tematica della materialità stessa della pittura. Infatti, rompere lo spazio piano s'inscriveva in un'analisi che metteva in causa il supporto della pittura. Ma la materia stessa doveva anch'essa conquistare la propria densità, il proprio spessore; doveva estrarsi dalla tela per raggiungere una plasticità, una flessibilità, un'esistenza fisica che trova la sua risoluzione nell'utilizzo di un feltro lavorato, triturato, che serve da amalgama ai pigmenti colorati, al punto che essi s'incorporano in una materia sperimentale e innovativa. Pino Pinelli inventa ciò che egli chiama la “Pelle di daino” che, dalle opere inedite composte nel 1975, seguendo un'evoluzione che va dalla formulazione rigorosa di forme geometriche nel 1976, all'espansione e dilatazione energetica del 1984, costituisce il “marchio di fabbrica” di un lavoro di cui egli continua a esplorare le sfaccettature più diverse e le variazioni più sottili. Questa materia mutevole, divenuta da allora brandello di una pelle malleabile o pulviscolo vellutato, si dissemina, si frammenta e si diffonde come un volo armonioso e leggero di mille battiti d'ali.
A CAPO
Da parte sua, Claude Viallat è uno dei protagonisti del movimento Supports/Surfaces che in Francia fu all'origine di una riflessione e di una messa in causa del concetto stesso di pittura, e dei suoi supporti tradizionali (telaio, tela). Gli artisti di questo movimento provengono per la maggior parte dal sud della Francia, e si sono incontrati alle scuole di Belle Arti di Montpellier e Parigi. Al fine di avvicinarsi al meglio alla realtà dell'opera e ritornare alle origini della pittura, il quadro non rappresenta nient'altro che la propria materialità, vale a dire la tela (liberata dal suo telaio), il pigmento e la forma. All'interno di questo movimento Claude Viallat si definisce in una pratica, più libera, quasi più “risoluta” rispetto agli altri membri del gruppo. Egli ama precisare: “Io dipingo pittura”.
Nel 1966 egli inventa una forma neutra, un sistema di pittura ripetitiva che gli è proprio e che caratterizza il suo lavoro, nel quale ogni elemento dipinto non è mai perfettamente una replica dell'altro. Forma o contro-forma, questa figura che somiglia ad un 'fagiolo', non è mai incorsa in alcuna modifica sin dalla sua prima apparizione nell'opera dell'artista, e resta da più di quarant'anni il segno distintivo di un'impronta pittorica che si declina in mille sfaccettature tutte diverse. Partire da una forma prima, svilupparla e differenziarla, farla evolvere nel tempo e nello spazio senza abbandonare la configurazione di origine, questa è la tematica di Viallat. In un testo pubblicato nel 1976, Fragments, l'artista scrive a questo proposito: “La nozione di replica, di serie o di ripetizione, diventa una necessità di fatto. [...] Una tela - un pezzo - da sola non è nulla, è il procedimento - il sistema - che è importante”. Il lavoro di Viallat è dunque da concepire come un principio unico dalle molteplici ramificazioni e dalle metamorfosi interne poste come necessarie.
Liberato dalla morsa del quadro, ed escludendo ogni rapporto con l'atto tradizionale di dipingere, come ad esempio l'utilizzo del pennello, l'artista utilizza indifferentemente tele libere, tessuto stampato, teloni, o qualsiasi altra stoffa o fibra tessile che egli lavora stendendola a terra. Accovacciato sul suo supporto steso al suolo, Claude Viallat realizza le sue squillanti pitture acriliche. Egli attinge la propria ispirazione, e la postura di lavoro, dalle arti primitive e spesso non occidentali. L'artista, più legato al procedimento di pittura che alla forma pittorica stessa, ha mantenuto l'unicità di un sistema che raggiunge quasi il concetto di impronta. La sua risolutezza è anche evidente nel fatto che egli si ostina, ancora oggi, a perseguire questa ricerca della complessità in un gioco infinito e immutabile. “... Ciò che conta, dice egli, è la maniera in cui i colori giocano con i colori che sono al di sotto; in maniera intuitiva e non voluta, non prevista, arrivo a organizzare una superficie in densità, in intensità”. Il motivo ripetitivo, sia contornato, sia pieno, è il supporto di un'esplorazione delle potenzialità del colore e delle materie, costituisce una trama che si sovrappone a quella della fibra tessile e gioca con essa. Modularità e ripetizioni sono i principi fondatori di un pensiero analitico che è comune a molti attori del movimento che trovano forza ed energia nella riduzione cromatica a una forma elementare reiterata.
Oltre alle forme e ai colori, la struttura in Viallat è determinante; essa riguarda la maniera in cui il colore è organizzato sulla superficie in una ripetizione di elementi, e ciò indipendentemente dalla forma. Questa dimensione integra le nozioni di consistenza, di materia, di impasto che mette in evidenza l'atto di dipingere, la materializzazione al tempo stesso del gesto e del materiale... La pittura stessa. Giocando con le materie, questa entra in risonanza con tele di iuta, teloni mimetici e altri materiali poveri. Questa varietà di supporti inaugura una modificazione del loro utilizzo: la tela viene piegata, sgualcita, arrotolata, incollata... La dismisura sembra essere un altro marchio di fabbrica di un'artista abitato dall'ampiezza del gesto. Dalle sue prime opere, egli fa esplodere, in grandi formati, un'esuberanza di colori che nel movimento analitico non era di regola. Infatti predominava nelle teorie dell'astrazione analitica una preoccupazione di riduzione della pittura che privilegiava il monocromo come riferimento esemplare. Il monocromo prolunga, per Lamarche-Vadel, teorico del movimento, una riflessione sul quadro scontrandosi con la chiusura del suo spazio. Questa radicalità relegò al rango di “astrazione rustica” (secondo la formula di Eric de Chassey) i lavori singolari di un'artista come Claude Viallat che, preferendo l'esuberanza del colore, si emancipò dai limiti e dai dogmi. La “rusticità” della sua pratica lo ha condotto a produrre opere a partire da oggetti recuperati, legni di mare, brandelli di tessuto, corde o reti; l'installazione aleatoria di queste strutture a volte totemiche avvicina definitivamente Viallat a un'arte quasi tribale, in cui la traccia del vissuto si ricollega a una memoria collettiva.
L'esperienza di questi tre artisti, ognuno secondo le vie che gli sono proprie, è simbolica di una problematica che si è imposta in Europa alla fine degli anni '60 e che s'inscrive nella storia del monocromo. Questa attitudine, che continua già da alcune generazioni, corrisponde a un desiderio latente nell'arte di voler chiudere una storia, quella del colore, quella della forma, quella del supporto, come un'affermazione di un ideale o di una finzione. La fascinazione del monocromo risponde a questo desiderio di “concludere” che abita la modernità, mentre il principio stesso di pittura resiste a questa conclusione. Il dualismo di queste aspirazioni fa emergere un antagonismo che alimenta le forze attive della pittura sempre vivente, più che mai vivente! Sempre in rinnovamento e in rifioritura la pittura sfugge eternamente a questa fine.