2016
Beatrice Bertini, Horizontal Casa italia, catalogo della mostra.
Barbara Picci, Le opposizioni dialettiche di Davide D'Elia, Fermomag n. 10, pag.62-67.
B. Leing, Sentimentally attached to the time, Vision Magazine (Cina), pag.22-23.
Massimo Mattioli, Due gallerie per la prima milanese di Davide D'Elia, Artribune.
Nina Azzarello, Davide D'Elia creates a blue horizon line through Casa Italia at Rio 2016 Olympics, Design Boom.
Giulia Zamperini, L'immobilità del tempo all Ex Elettrofonica, Art Noise.
2015
Andrea Bizzarro / Matteo Boetti, Alberto Burri | Davide D'Elia. Cretti, fuochi, muffe, catalogo della mostra.
Antivegetativa, Victionary - Monotone (Cina), pag.152-153
Raffaella Guidobono, Moleskine - Detour, the Moleskine notebook Experience, pag.352
The art bazar, Time Out (Turchia), cover
Now, D Repubblica, pag.102
Chiara Pagani, Burri e D'Elia faccia a faccia, La Lettura, pag.21.
2014
Carmen Stolfi, Untitled Association - édra, flyer.
Raffaele Gavarro, Due o tre cose che so di loro, Exibart n.87, pag.59.
Daniela Trincia, Davide D'Elia, la memoria oltre la vita, Arte e Critica n.77, pag.97.
2013
Claudio Libero Pisano / Lea Mattarella, Nell'Acqua Capisco, Acqua, exhibition catalogue, pag.17.
Fabio De Chirico / Massimo Mattioli, Artsiders, catalogo della mostra, pag.96-99.
D. Speranza, La realta' del mondo filtrata dai contrasti, La città, pag.36.
Abigail Lewis, Antivegetativa - Q&A with Davide D'Elia, Nero Magazine.
2011
Giulia Ferracci, Davide D'Elia ######1, Cura, pag.101-105.
C. Prada, Funghi rigenerati, buoni & cattivi…, Velvet, pag.42.
Eleonora Capretti, Ieri distrattamente mi volsi a …, Sguardo contemporaneo.
2010
A. Aquilanti / A. Inzana / F. Pizzuto, Ieri distrattamente mi volsi a considerar altrui memorie ( dalle quali mi ritrovai rinvigorito), catalogo della mostra.
Flavia Montecchi, Sperimentazione dello spazio…, Art Apart of Culture.
2008
M. Arsanios, Drawmusicdraw, catalogo della mostra.
S. Wroe, The cosmic invaders make some Spiritual Promises, The Knowledge (The Times), pag.97.
2007
O. Spatola, Orizzonte degli eventi, catalogo della mostra M. Di Tursi, A Ceglie le arti giocano col tempo, Corriere del Mezzogiorno.
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Il rifugio perfetto
Pietro Gaglianò
“Quando venne proclamato che la Biblioteca comprendeva tutti i libri, la prima sensazione fu di stravagante felicità.”
Jorge Luis Borges
Tra i fattori che soggiacciono all’edificazione di biblioteche, musei, archivi da parte degli apparati statuali e della maggior parte dei costrutti sociali, è fondamentale la pulsione, sciente e programmatica, alla costruzione identitaria. In Europa e nel Nord America la creazione di apparati di ispirazione pubblica, concepiti per la conservazione e la catalogazione di opere, reperti, libri, documenti, corre parallela alla definizione di una narrazione univoca concepita per confermare confini o espanderli, e per accordare autorevolezza (e ineluttabilità) al sistema egemonico in essere. In una versione meccanicista della storia tutto è andato come doveva andare, ed è insensata ogni immaginazione di una compagine diversa, in opposizione all’impianto del potere. I luoghi di conservazione prendono forma nel tempo e nello spazio civico, con un uso strumentale della storia, dove “tra le possibili ricostruzioni, un solo passato viene rappresentato come il passato”i.
Tutto questo avviene lungo due assi di azione coerenti tra loro; il primo soddisfa una funzione assimilativa: attraverso la manomissione del tempo si procede all’appropriazione dei luoghi e delle forme di conoscenza e descrizione che li riguardano. Il secondo gesto tende invece a escludere, a marcare il passaggio tra cosa è ammesso dentro questa configurazione di autoriconoscimento forzato e cosa invece viene scartato, silenziato perché non conforme, non conveniente per la narrazione dominante. Come evidenzia Jacques Derrida, l’istituzione di un archivio (e per estensione, di biblioteche e musei) consegna volontariamente all’oblio tutto ciò che viene escluso, perché ritenuto non legittimoii. L’esito deliberatamente perseguito di questa strategia è l’identificazione delle soggettività nell’alveo di una raffigurazione compatta, perfezionata con l’induzione nei suoi destinatari del bisogno di essere certi di “trovarsi all’interno e non all’esterno del sistema che conferisce loro diritto di cittadinanza (a esclusione, e ai danni, di chi non lo possiede)”iii. L’effetto di ricaduta è quello del rifiuto verso ciò che viene ricacciato oltre i margini e che, con lo stigma dell’estraneità, diventa il terminale di ogni responsabilità per la mancanza di sicurezza, prosperità, grandezza, felicità.
Tale struttura ricorre nel dispositivo storiografico, ed è specialmente visibile nel caso specifico nella nascita della storia dell’arte in età moderna. Nel 1550 Giorgio Vasari pubblica la prima edizione de Le vite de' più eccellenti pittori, scultori, e architettori, e consegna al mondo un manifesto che coniuga un primato estetico (la supremazia del Rinascimento centroitaliano, toscano e specificamente la Firenze medicea come novella Atene, con una genealogia che partendo da Giotto e Cimabue si compie nell’insuperabile apparizione di Leonardo Da Vinci, Raffaello Sanzio e sopra tutti il genio di Michelangelo Buonarroti) a un preciso disegno geopolitico - quello della dinastia di Cosimo I, che aveva già consegnato alla storia una regina di Franciaiv (un’altra sarebbe seguita dopo pochi decenniv) e due ponteficivi. A distanza di due secoli, con la pubblicazione della Storia dell’Arte nell’Antichità, nel 1753, Johann Joachim Winckelmann dichiara la preminenza dell’arte classica e fonda il principio storiografico moderno, basato su una trattazione positivista, di ispirazione scientificavii. Si tratta un metodo incernierato sulle origini della cultura occidentale e che si accompagna, tra il XVII e il XIX secolo, alle guerre di conquista del colonialismo di matrice europea anticipando alcuni strumenti ottici che saranno poi tipici dell’antropologia: la fissazione di una norma, di un canone (nato dalla sintesi tra modelli estetici, quelli dell’arte, e quelli temporali-causali riferiti alla storia), e l’assunto che questo possa venire utilizzato per categorizzare tutte le manifestazioni dell’ingegno, della creatività e della socialità umaneviii.
Nella conformazione culturale del museo e della biblioteca, tutto questo può essere configurato come l’edificazione di una fortezza, una specie di cittadella identitaria: istituzioni a futura memoria, o rifugi solidi per il futuro della memoria. E via via che le condizioni ai confini di questo spazio morale dell’appartenenza si fanno più critiche, o che la storia accelera la sua corsa comprimendo la sicurezza di tali costruzioni (con le fisiologiche mutazioni sociali, i movimenti di grandi masse di persone, gli effetti della crisi ambientale), allora la fortezza inasprisce la propria vocazione difensiva e assume sempre più l’aspetto di un rifugio.
Ne La Biblioteca di Babele Jorge Luis Borges racconta che “quando venne proclamato che la Biblioteca comprendeva tutti i libri, la prima sensazione fu di stravagante felicità. Tutti gli uomini si sentirono padroni di un tesoro intatto e segreto. Non c’era problema personale o mondiale la cui soluzione non esistesse in qualche esagono. L’universo era giustificato, l’universo usurpò bruscamente le dimensioni illimitate della speranza”ix. È a questo universo di esattezze, di categorie binarie, senza nessuno spazio per l’ambiguità e per le domande senza una risposta univoca, a questo pensiero di assoluto controllo su quello che si è, sulla frontiera che trattiene l’alterità, che la maggior parte degli abitanti del mondo nordatlantico tende: uno spazio che con la garanzia della certezza, della definitezza, scaccia la possibilità di altri costrutti possibili e con essa anche la speranza, l’immaginazione, lo slancio verso l’altro. Perché l’opposizione al potere si nutre sì di conoscenza ma soprattutto della capacità immaginativa, dell’atto gratuito che concede di guardare oltre un reale grigiamente amministrato ed esercitare lo sforzo per sovvertirlo.
Oltre l’abolizione della speranza, sul versante opposto, nei vasti domini del rimosso, il concetto di rifugio si dichiara nella sua declinazione antitetica, caratterizzata da accidentalità, ibridazione, una forma di spontaneità generativa e non escludente. È nelle periferie del mondo, nell’accatastarsi, confuso ma mai casuale, di dati, ricordi, detriti che la cultura rigenera se stessa grazie alle contaminazioni, allo sciogliersi del controllo e all’allentamento della norma. La periferia, scrive Iosif Brodskij, “non è il luogo dove finisce il mondo – è proprio il luogo in cui il mondo si decanta,” e questo riguarda “l’occhio non meno che la lingua”x. Ai margini delle versioni ufficiali il rifugio adotta soluzioni di scarto, materiali secondari, tutto il sottaciuto capace di raccontare la vera sostanza dei luoghi e del loro tempo. E questo si manifesta tanto nel mondo reale quanto nello spazio simbolico in cui accade l’arte, che è capace di ispirare e a volte modificare anche il mondo reale. Riunendo le due possibili interpretazioni del termine ‘rifugio’ il lavoro compiuto dall’arte svolge un percorso di revisione critica della costruzione culturale euroamericana, ricollocando l’autentica invenzione presso quegli “spaces of cultural improvisation”xi che David Graeber immagina come preposti ad accogliere l’innovazione democratica, là dove la distrazione del potere permette “le condizioni che si creano in queste sacche di inefficienza della rete globale: spazi esterni, pronti ad accogliere elaborazioni culturali in contravvenzione al potere stesso”xii. Gli artisti impegnati in quella prassi dell’immaginazione che coincide con la resistenza raccolgono detriti e mettono in scena rovine o assemblaggi che non rappresentano lo sfacelo della civiltà, ma alzano lo sguardo sui suoi possibili sviluppi, sullo stratificarsi di edifici morali collettivi.
Hal Foster scrive che gli artisti ispirati da quello che chiama un “Archival Impulse” in prima istanza “cercano di rendere presenti informazioni storiche spesso perdute o rimosse”xiii. Agendo all’interno di un paradigma che prende in prestito metodi di una ricognizione scientifica, questi artisti compiono una riscrittura di tali metodi, soprattutto nel momento in cui sovvertono le gerarchie raccogliendo e assemblando composizioni eteroclite, spesso temporanee, di elementi tra loro apparentemente incommensurabili. Eppure dell’archivio viene mantenuta una facoltà generativa, “in un modo che sottolinea la natura dei materiali d’archivio come se fossero trovati ma già costruiti, fattuali ma fittizi, pubblici e privati”xiv.
La ricerca di Davide D’Elia si svolge come una liturgia del tempo delle cose umane, del quale affresca l’inesorabilità e l’inclinazione all’imperfezione e allo smarrimento. Arredi, tessuti, quadri e altri oggetti d’antiquariato vengono parzialmente ricoperti con uno strato di colore (è la vernice antivegetativa, correntemente impiegata per proteggere gli scafi). Le conseguenze di questa operazione si producono come una rarefazione della capacità di controllo dell’autore e si manifestano nella trasformazione che le superfici non verniciate continuano a subire: un “terzo paesaggio” che, come nella descrizione della forma urbana fatta da Gilles Clément, sorge all’abbandono di ogni attività umana e si trova quasi sempre in luoghi interstiziali, tra il mondo fabbricato e la natura spontaneaxxi. Il ruolo della pittura antivegetativa dispiega quindi una metafora di quella volontà conservativa che anima tutte le azioni di difesa di quella presunta unitarietà del carattere nazionale e culturale intrinseca alle istituzioni della memoria identitaria: “Terzo paesaggio rinvia a Terzo stato (e non a Terzo mondo). Uno spazio che non esprime né il potere né la sottomissione al potere”xxii. La storia, infatti, è indifferente alle ostruzioni esercitate dagli agenti del dominio, da sempre si muove per smentite, scarti improvvisi e ritorni inaspettati ed è una nemesi spietata quando riattiva un passato che immaginiamo ordinato e per sempre pacificatoxxiii. Come nella trattazione storiografica e nella pratica di esclusione che la sorregge e la alimenta, il contrasto tra le due parti delle opere di D’Elia rivela l’evidenza: la materia non verniciata continua a scorrere nel tempo subendo il degrado biologico, invecchia e si corrompe in un movimento vitale di sostanze inerte e organismi. L’altra parte, nel perseguire una artificiale immutabilità, è bloccata in una mimesi grottesca della natura (perché con le migliori intenzioni quel blu sintetico sarebbe il colore dell’acqua): una condizione definitivamente sterile che con i cicli della natura, e con quelli della storia, ha poco in comune.
D’Elia costeggia con le sue opere il concetto che George Bataille teorizza attraverso l’eterologia e che si può qui semplificare come “ciò che si oppone a qualunque rappresentazione omogenea del mondo”xxiv; qualcosa che germoglia al di fuori di – e in contrasto con – ogni sistema, filosofico, sociale, morale. In questa prospettiva il lavoro di D’Elia lascia scorgere una visione antieroica della storia, dove il tempo fiorisce (esattamente come le muffe che si muovono sulle opere dell’artista) in quelle aree in cui il controllo e la costruzione sistemica si fanno meno stringenti e pervasivi. Internamente a questa metafora assume un preciso significato anche la scelta di lavorare su assemblaggi: quasi tutte le opere, infatti, sono composte da oggetti diversi, montati per apparire coerenti formalmente ma di fatto esito di un ulteriore artificio che dichiara, ingannando gli occhi, l’impossibilità di creare categorie definitive.
C’è in tutto questo anche una sommessa aspirazione pedagogica: un invito a deviare lo sguardo dalle messe in scena della tradizione per “reimparare a sentire il tempo per riprendere coscienza della storia”xxv, come Marc Augé ritiene che debba avvenire al cospetto delle rovine, senza sentimentalismi, facendo un’esperienza “del tempo puro”.
Il dato culturale identitario e la sua metamorfosi lungo la storia tessono la matrice del lavoro di Justin Randolph Thompson che ricostruisce ascendenze e vicende storiche collocandole in una cornice di meticciamento, lungo parallelismi, innesti e dichiarazioni di dissenso. Tryin' to get ready, la performance realizzata espressamente per Shelters and Libraries, mette in scena un reenactment della cerimonia con cui gli Stati Uniti d’America, il 31 maggio 1945, restituirono alla città di Genova le ceneri di Cristoforo Colombo. La rilettura di Thompson si incentra su un aspetto non secondario: la divisione fanteria Buffalo Soldier che entrò a Genova alla fine di aprile, e che con una orchestrata processione celebrò il ritorno delle spoglie in città, era composta da militari afroamericani. Così nella sua performance l’artista, problematizzando i molti elementi di questa geopolitica rovesciata, ha percorso come nella marcia originale via XX Settembre eseguendo, con Leon Jones, alcuni spiritual (il canto degli schiavi nelle piantagioni) tra cui il brano interpretato dal coro Wings Over Jordan nel giorno della cerimonia.
Tutte le opere di Shelters and Libraries si trovano in una posizione transitoria, una nuova esistenza risemantizzata, in un equilibrio espositivo che echeggia l’aspetto di un museo. La mimesi con i display museali gioca però in una posizione antagonista, dichiarando quasi illogicamente la propria transitorietà. Le opere si pongono in una strana intangibilità, momentaneamente sospesa, ma capace di emettere informazioni, narrazioni divergenti, provocare cortocircuiti. In questo senso rappresentano rifugio perfetto, l’arte lo è quasi sempre.
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i Malcolm Miles, Art, Space and the City. Public Art and Urban Future, Routledge, Londra - New York 1997, p. 60.
ii Cfr. Jacques Derrida, Mal d’Archive. Une impression freudienne, Éditions Galilée, Parigi 1995.
iii Pietro Gaglianò, Memento. L’ossessione del Visibile, Postmedia Books, Milano 2016, p. 41.
iv Caterina, nipote di Lorenzo il Magnifico, moglie Enrico II e madre di altri tre sovrani di Francia: Francesco II, Carlo IX, Enrico III.
v Maria, figlia di Francesco I, il primogenito di Cosimo de’ Medici, e moglie di Enrico IV.
vi Leone X e Clemente VII (rispettivamente il secondogenito di Lorenzo il Magnifico e il nipote, figlio di Giuliano); un terzo papa Medici, Leone XI, avrebbe regnato per un solo anno nel 1605.
vii Cfr. Georges Didi-Huberman, L’image survivante. Histoire de l’art et temps des fantômes selon Aby Warburg, Editions de Minuit, Parigi 2002 [L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp. 13 e ss.].
viii Cfr. Serge Latouche, L'Occidentalisation du monde: Essai sur la signification, la portée et les limites de l'uniformisation planétaire, La Découverte, Parigi 1989 [L’occidentalizzazione del mondo, Boringhieri, Torino 2002] ; Gérard Leclerc, Anthropologie et colonialisme, Éditions Fayard, Parigi 1972 [Antropologia e colonialismo, Jaca Book, Milano, 1973].
ix Jorge Luis Borges, La biblioteca de Babel, 1941-1944 [La Biblioteca di Babele, in Finzioni, Adelphi Edizioni, Milano 2003, p. 71].
xIosif Brodskij, Less than one. Selected essays, New York 1986 [Il canto del pendolo, Adelphi, Milano 1987].
xiDavid Graeber, There never was a West. Democracy emerges from the spaces in between, AK Press, Oakland, California, USA 2007 [David Graeber, Critica della democrazia occidentale, Elèuthera, Milano 2012, p. 85].
xii Pietro Gaglianò, Cit., p. 42.
xiii Hal Foster, “An Archival Impulse”, in “October”, n. 110, Cambridge, Massachusetts, autunno 2004, p. 4.
xiv Ivi, p.5.
xv È il titolo di un film di Elio Petri del 1971: un’epopea della fabbrica, della lotta per i diritti dei lavoratori, delle illusioni di quel tempo.
xvi Pietro Gaglianò, Cit., p..
xvii La strategia del capitalismo avanzato può essere descritta “nella novità e intensità dei suoi dispositivi di “interpellazione” dei soggetti, improntati non più alla repressione, ma alla gratificazione, al godimento, al piacere”; Teresa Macrì, Fallimento, Postmedia Books, Milano 2017, p. 14.
xviii Cfr. Gunther Anders, Die Antiquiertheit des Menschen, 1956[L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 2007].
xix Patrick Chamoiseau, Texaco, Gallimard, Parigi 1992, p. 243 (t.d.a.).
xx Benjamin H.D. Buchloch, 1972a, in H. Foster, R. Krauss, Y.A. Bois, B.H.D. Buchloch, Art since 1900. Modernism, Antimodernism, Postmodernism, Thames & Hudson, Londra 2004, p. 551.
xxi Cfr. Gilles Clément, Manifest du Tiers paysage, Èditions Sujet/Objet, 2004 [trad. it.Manifesto del Terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata 2005]
xxii Ivi, p. 11.
xxiii La crisi ambientale odierna, quasi l’atto terminale dell’antropocene, e i movimenti di migrazione che di cui è in gran parte causa, sono una dimostrazione evidente di questo passato attivo, avendo la propria origine nell’oppressione delle popolazioni e nella dissennata predazione delle risorse nelle regioni invase dall’alba dell’età coloniale moderna.
xxiv Georges Bataille, Oeuvres complètes, Editions Gallimard, Parigi, vol. II, p. 61.
xxv Marc Augé, Le temps en ruines, Éditions Galilée, Paris 2003 [Rovine e macerie, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 43].
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Shelters and libraries
La mostra Shelters and Libraries, che ABC-ARTE dedica ai lavori di Adalberto Abbate, Gaetano Cunsolo e Davide D’Elia, tre artisti italiani con importanti esperienze nazionali e internazionali, presenta al pubblico una selezione di opere che ruotano attorno al tema portante della memoria celata nelle immagini e nell’architettura; una rete di sollecitazioni e visioni che mettono in evidenza alcune contraddizioni della cultura occidentale alle prese con la propria identità̀.
Shelters and Libraries intende stimolare una riflessione su problematiche oggettive, reali e contemporanee, riscontrabili in tutto il nostro vissuto quotidiano. Tramite le opere dei tre artisti, la Città di Genova ha così modo di confrontarsi con uno spaccato della ricerca artistica più contemporanea, che riflette su importanti ed attualissime tematiche.
I temi della conservazione della memoria e del continuo trasformarsi dei mezzi di comunicazione, toccano molto da vicino sia la Città, in fase di forte crescita nel settore turistico, sia noi tutti in qualità di individui e cittadini.
La mostra come anche il suo percorso didattico, si rivolge ai giovani, agli studenti universitari e delle scuole secondarie, ed ai cittadini tutti, e rappresenta una occasione di confronto con il mondo dell'arte e di arricchimento culturale per la Città di Genova che si è sempre dimostrata di essere aperta agli stimoli culturali più innovativi.
Carla Sibilla
Assessore alla Cultura e al Turismo
Comune di Genova
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All''interno di questo libro viene documentataun'esperienza di rappresentazione degli eventi e dei fatti che rappresentano la nostra memoria collettiva sottratta, sottaciuta e scartata dai canali ufficiali ed istituzionali di divulgazione ed archiviazione
I tre artisti coinvolti analizzano due aspetti fondamentali della tradizione culturale europea, richiamati dal titolo della mostra stessa, assumendo un ruolo fondamentale sulla dimensione comunitaria ed il bisogno di conferire un significato culturale allo spazio vissuto, inteso come luogo di coesistenza tra culture dominanti e periferiche.
Di fronte alla complessità di un simile scenario, Adalberto Abbate, Gaetano Cunsolo e Davide D'Elia ri-interpretano e sconvolgono contesti apparentemente ordinari, sviluppando una più profonda riflessione sulla dimensione di nuovi edifici morali collettivi.
Antonio Borghese
Head consultant & director, ABC-ARTE