Io non rappresento nulla, io dipingo.
Inizia alla fine del 1967. Dopo alcune tele monocrome in cui il colore non è steso su tutta la superficie del quadro (“quasi dipinto”), le stesure di colore sono sostituite dal ripetersi sulla tela di un medesimo segno, sempre lo stesso e sempre diverso per via delle imperfezioni della mano.
La pittura raccogliere i ritmi e la variabilità del divenire costruendo delle società di segni, tutti con gli stessi caratteri e tutti diversi l’uno dall’altro, similmente a quanto accade nella società degli uomini, o negli animali di una stessa razza, nelle foglie di una stessa pianta, ovvero nei cristalli.
In questo ciclo sono presenti le costanti di tutto il lavoro successivo: il non finito e la scelta di segni anonimi, che appartengono alla mano di tutti, anziché alla mano privilegiata dell’artista.
L’attenzione all’imponente memoria della pittura anziché a quella singola del pittore determina nella seconda metà degli anni ’70 la necessità di Griffa di aprire il lavoro a suggestioni più vaste.
Così segni differenti iniziano a dialogare fra di loro. Da una società di segni si passa alla convivenza di diverse società di segni sulla stessa tela - segni orizzontali e segni verticali, segni larghi e segni sottili - ciascuna organizzata sui ritmi interni del ciclo dei segni primari e tutte compresenti in grazia di quella memoria immensa della pittura.
Nel tempo questo ciclo è andato modificandosi in considerazione del movimento, della mobilità del divenire, una sorta di passaggio dal mondo tolemaico a quello copernicano sino alla modernità di Einstein.