Pellerossa e grattacieli: in dialogo con Ugo la Pietra
Andrea Rossetti, Exibart, April 7, 2023
Sullo sfondo di una Milano “orizzontale”, ma cresciuta in “verticale”: un'intervista che è anche un po' manuale di istruzioni per abitanti consapevoli dello spazio urbano. In puro stile La Pietra.
Da sempre lei si definisce “ricercatore nelle arti visive”. In pratica ha opposto un concetto inclusivo e fluido, a quelli più settoriali di artista, architetto o designer. Coerente con sé stesso, ha da subito rotto gli “schemi imposti”, cercando un “itinerario preferenziale” che annullasse certe canalizzazioni di genere. Insofferenti alle solite prospettive si nasce, o ci si diventa col tempo?
Tutto è iniziato quando nei primi anni Sessanta mi sono laureato con la tesi “La sinestesia tra le arti”. Affermavo quindi il superamento dell’Integration des artes per un attraversamento e travaso tra gli ambiti disciplinari. Ciò che poi ho fatto per tutta la mia vita.
Con lei devo aprire una parentesi sul rapporto arte/design. Mi è capitato di ascoltare un’intervista ad Angela Vettese. Che, per farla breve, affermava come la figura dell’artista/designer fosse un ibrido poco riconosciuto sia in un ruolo, sia nell’altro. E in quel caso citava Munari. Al di là di tutto, ha mai percepito nella sua carriera un minimo di, diciamo, “spaesamento”, o in nome della “sinestesia tra le arti” la cosa non l’ha mai riguardata?
Ho cercato per anni di far capire al mondo del design, fatto di oggetti di produzione, che doveva esistere un territorio che come in tutte le discipline si chiama “ricerca”. Questa pratica non è mai stata accettata, se non in alcuni casi, ed è stata descritta come attività svolta un “artista-designer”.
«Abitare è essere ovunque a casa propria». Quando utilizzo i vetri di un portone per specchiarmi, un po’ come lei che si fa la barba per strada a Milano, sto – nel mio piccolo – “recuperando e reinventando” qualcosa che ha funzione di filtro tra pubblico e privato, per farne un uso personale. Detto questo, secondo lei sono solo narcisista, o uno che in quel momento – sentendosi come a casa propria – sta abitando la città?
Abitare la città vuol dire non solo usarla (si usa la camera d’albergo, si abita la propria casa) ma anche cercare di espandere in essa la propria personalità, connotando lo spazio attraverso una pratica (soprattutto mentale) di riappropriazione dello spazio urbano. Per spiegare questo concetto faccio l’esempio del popolo dei Pellerossa, che facevano buchi sotto i mocassini dei propri figli affinché potessero toccare con la pianta dei piedi la terra che era, di fatto, la “polvere delle ossa dei propri avi”. Davano quindi ad ogni oggetto un significato senza trasformare il territorio: ne prendevano possesso in modo mentale.
Giro abbastanza da accorgermi che tanta gente cammina con gli occhi incollati allo smartphone. È nello spazio urbano, ma inconsapevolmente. Poca, al contrario, pare interessata a relazionarsi con ciò che la circonda. Il progresso tende a inibire La riappropriazione della città?
Come ho detto la riappropriazione è un’operazione affettiva e mentale. Ad esempio tutti noi abbiamo fatto nostre le case che i nostri genitori ci hanno imposto, avendo vissuto per tanti anni in spazi che non avevamo costruito noi stessi ma che con il tempo abbiamo posseduto e poi anche amato.
Collegandomi alla domanda precedente: forse La casa telematica, nel bene e nel male, quarant’anni dopo si è tanto espansa da diventare “vita telematica”?
Sì, la Casa Telematica è stata nel 1983 un “modello di comprensione” dove erano stati introdotti strumenti telematici e informatici per vedere (o meglio scoprire) le possibili deformazioni comportamentistiche e ambientali. Oggi tutto si è avverato in eccesso!
In quel flusso di elementi che è la serie La città scorre ai miei piedi, presente in mostra da ABC-ARTE a Genova, direi d’aver riconosciuto edifici iconici romani, come il Colosseo o la cupola di San Pietro. Riferimenti a parte, l’architettura monumentale è sempre – e qui la cito – «l’estetizzazione delle regole repressive, l’estetizzazione di una società invece della sua realizzazione», o esistono delle eccezioni?
L’architettura monumentale è “l’estetizzazione delle regole repressive!” Milano è una città orizzontale (è nella pianura padana) e l’hanno mortificata con i grattacieli ed è una città delle acque (con i tanti Navigli e porti) e l’hanno mortificata coprendo i corsi d’acqua!
È in mostra anche nella dépendance meneghina di ABC-ARTE. Tuttavia, vorrei uscire dallo spazio espositivo, per fare l’ultima domanda di questa intervista al La Pietra “operatore estetico”, altra definizione che si è sempre dato. Oggi come è messa Milano? “Paletti e catene” (quelli di Interventi pubblici per la città di Milano, ndr) hanno lasciato posto ad altro?
Ancora oggi i 40 tipi (modelli) di diversi dissuasori sparsi in tutta la città dimostrano la mancanza di un progetto unitario; manca un progetto unitario non solo per la fornitura stradale, non solo per le migliaia di strutture (gazebi) per i ristoranti e bar che occupano (in modo aggressivo e senza regole) lo spazio urbano, non solo per un impianto di illuminazione stradale… e potrei andare avanti ancora con molte altre voci. Voci che esprimono la mancanza che è da sempre pesantemente subita dai cittadini di un “progetto culturale” per la città di Milano. Il solo progetto culturale che Milano cerca di esportare è il “Fuori salone” dove tutto è permesso (basta pagare!).