Venerdi 26 Febbraio ABC-ARTE apre la nuova stagione con l'inaugurazione della mostra personale di Giorgio Griffa Un mondo astratto non basta.
Genova rinnova il proprio legame con l'artista torinese, tra i più significativi del dopoguerra. Del resto, sono state di particolare rilevanza le sue presenze negli anni '70 alla Galleria Bertesca e Samangallery e negli anni '80 alla Samangallery, La Polena e Studio Bonifacio.
Un mondo astratto non basta, si pone in continuità con la personale realizzata da ABC-ARTE nel 2015 Esonerare il mondo, a cura di Ivan Quaroni e la collettiva ospitata nel 2018 Absolute Painting. Giorgio Griffa, Tomas Rajlich, Jerry Zeniuk, a cura di Flaminio Gualdoni.
La selezione delle circa quaranta opere si concentra in particolare su un nucleo di lavori storici degli anni '70 dove Griffa, affiancandosi alla Pittura Analitica ed all'indagine dell'Arte Povera, sviluppa un'indagine personale che porta ad un superamento dei concetti tradizionali di pittura, identificando una nuova forma di conoscenza. "Io non rappresento nulla, io dipingo", è la sua dichiarazione di poetica espressa nel 1972. Da allora, la sua arte non dà certezze ed è un interrogarsi perenne sulla pittura, sulla sua intrinseca intelligenza e sulla sua ridefinizione.
Per Griffa dipingere è un'azione che si pone come la totalità intorno alla quale ragionare, un mezzo non un fine che si relaziona con gli altri campi del sapere quali la filosofia, la scienza o la musica.
In occasione dell'inaugurazione della mostra, patrocinata dal Comune di Genova, viene presentato il nuovo volume monografico dedicato a Griffa edito da ABC-ARTE con un'intervista-dialogo nata da un lungo scambio epistolaretra l'artista e Leonardo Caffo (da qui il titolo della mostra) e un saggio critico di Alberto Fiz.
Giorgio Griffa
Un mondo astratto non basta
26 Febbraio - 24 Aprile 2021
ABC-ARTE
Via XX Settembre 11/A Genova
T.010.86.83.884
Notizia biografica sintetica dell'artista:
Giorgio Griffa è nato a Torino nel 1936. Vive e lavora a Torino.Inizia la attività espositiva nel 1968. Collabora con Gian Enzo Sperone sino a quando egli sposta la sua galleria a Roma.
In seguito collabora con altre Gallerie (Sonnabend a New York e Parigi, Martano, Salzano, Biasutti a Torino, Toselli, Ariete, Templon, Lorenzelli, Milione, Guastalla a Milano, Samangallery a Genova, Godel, Primo Piano, Malborough, E.Tre, Mara Coccia, Oddi Baglioni, Marino, Lorcan O'Neill a Roma, Casey Kaplan a New York, eccetera) ed espone in varie manifestazioni, quali Prospect 69 e 73 a Dusseldorf, Processi di pensiero visualizzati al Kunstmuseum di Lucerna 1970, Contemporanea al Parcheggio di Villa Borghese Roma 1973, Biennale di San Paolo 1977, Biennale di Venezia 1978, 1980 e 2017, L'informale in Italia alla GAM Bologna 1983, Un'Avventura Internazionale al Castello di Rivoli 1993, Arte Italiana Ultimi quarant'anni alla GAM Bologna 1998, Le soglie della pittura nella Rocca Paolina Perugia 1999, personale alla GAM di Torino 2001, Time & Place al Moderna Museet Stockholm 2008, MACRO Roma 2011, Trinity College Dublino nel 2014, Centre Art Contemporain Ginevra 2015, Bergen Kunsthall Bergen 2015, Fondazione Giuliani Roma 2016, Fondation Vincent Van Gogh Arles 2016, Museu de Arte Contemporanea de Serralves Porto 2016, Camden Arts Center Londra 2018.
Griffa ha pubblicato vari testi, fra cui: Non c'è rosa senza spine nel 1975, Cani sciolti antichisti nel 1980, Drugstore Parnassus nel 1981, In nascita di Cibera nel 1989, Nelle orme dei Cantos nel 2001, Post Scriptum nel 2005, I flaneur del Paleolitico e Il Paradosso del Più nel Meno nel 2014, Golden Ratio & Shaman nel 2019.
Collezioni pubbliche:
Galleria d'Arte Moderna (GAM), Torino, Castello di Rivoli, Rivoli, Torino, Galleria d'Arte Moderna, Roma, Museo d'Arte di Gallarate, Gallarate, Museo del Novecento, Milano, Gallerie d'Italia - Piazza Scala, Milano, Museo di Arte Contemporanea di Roma (MACRO), Roma, Tate Modern Gallery, Londra, Museo Cantonale d'Arte, Lugano, Dallas Museum of Art, USA, Fundacao de Serralves, Porto.
Un mondo astratto non basta
Giorgio Griffa in dialogo con Leonardo Caffo
Caffo. Il mondo astratto non basta, ma forse mai come oggi ci rendiamo conto che l'astratto è una forma di concreto palese, tangibile, quasi tattile. Il mondo non è mai stato immateriale tanto quanto oggi, tra le nuvole del digitale, strutture primarie come forme e colori sembrano tutto ciò che accade. Il colore, in effetti, rappresentato come forma pura dell'intelletto ci appare ancora come qualcosa di misterioso. Wittgenstein definisce "matematica del colore" la scienza che cerca di capire cosa siano le idee pure che compongono la grammatica del vedere. Pensavo che in fondo, molto del tuo lavoro (dai Segni primari all'analisi della Seziona aurea), potrebbe essere descritto benissimo da questa idea di Wittgenstein. Se dico "colore" non possiamo non pensare a un'idea astratta che prende forma solo nel concreto.
Iniziamo dunque da qui, se dico "colore" cosa ti viene in mente? Ti ritrovi in questa definizione di Wittgenstein? C'è, nella corda tesa tra l'astratto e il concreto di cui il colore appare qualcosa di privilegiato, proprio quella «traccia di vita» di cui parlava Yves Klein - «Lunga vita all'immateriale!».
Griffa. Si, lunga vita all'immateriale.
La scienza con la meccanica quantistica e la filosofia con Wittgenstein e Nietzsche (qui tu filosofo puoi dirmi se sbaglio) hanno riaperto una immensa prateria di ignoto che l'Occidente pareva avesse archiviato relegandolo ai popoli primitivi, che invece primitivi non erano affatto sul piano del pensiero anziché della tecnica.
Le arti, che da sempre attingono all'immateriale, ritrovano quel dialogo che si era interrotto quando l'Occidente iniziò a pagare il prezzo di un immenso sviluppo tecnologico e scientifico riducendo la persona a mero soggetto economico.
Non è un caso che Schopenhauer abbia scritto "Il mio Oriente" all'inizio dell'800, mentre si generalizzava lo sfruttamento colonialistico con l'alibi della cultura superiore. Anche in grazie del Romanticismo, che io non amo in modo particolare, noi abbiamo ritrovato quella unità perduta di materiale e immateriale, di noto ed ignoto, di essere e di non essere, di Yin e Yang.
La immensa energia dell'universo, che opera con una intelligenza inimmaginabile attraverso le impercettibili particelle che appaiono solo quando operano, contiene non solo i sassi e gli alberi e gli esseri viventi, contiene tutti i pensieri di tutti, questo è il titolo della mostra che ho in corso al Museo di Spoleto.
Il segno del pennello sulla tela è il passaggio dalla immensa energia indifferenziata del mondo a quella briciola di energia materiale che si concreta nel segno.
Caffo. Questa energia, che in filosofia mi fa pensare alla teoria di Averroe dell'intelletto condiviso, sembra apparire nel tuo lavoro un po' ovunque. Il divenire continuo dei segni intesi come dei buchi neri, i campi che si portano dietro un'energia immensa come nel Dionisio, sono sicuramente qualcosa che si pone in una relazione molto privilegiata e critica col tempo presente. Parlavi di questo "prezzo immenso" del progresso e della società tecno-industriale, e anche durante il nostro primo incontro il tuo scetticismo nei confronti di internet sembrava farla da protagonista. Eppure internet, in fondo, è proprio questa energia immateriale e indifferenziata che poi si può concretizzare in un segno ed è nata proprio come sogno di un intelletto condiviso. Le cose poi sono andate male? Forse. Il punto, e qui sta la mia seconda domanda per te, è che non tutti i segni hanno lo stesso valore quando tentanodi cristallizzare l'energia da cui scaturiscono. C'è un'etica dietro questa estetica energetica di cui mi stia parlando?
Griffa. Direi che internet con la sua capacità di raccogliere miliardi di dati in un magazzino che non c'è, senza spazio né tempo, immateriale, mi aiuta a considerare reali Gilgames e Apollo per il solo fatto di essere pensati, assurdo negarli se non li ritroviamo nel mondo materiale.
Il nostro tempo ha appena aperto un portale immenso, forse paragonabile solo alle due grandi invenzioni del passato, i metalli e la scrittura. Qui convivono i contrari, vi sono i margini per ritrovare ovviamente diversa una ricchezza che era dell'uomo arcaico, che divenne consapevole al tempo di Confucio, Lao Tzu, Budda, Talete ed Eraclito, la nascita della filosofia, e nei secoli successivi.
L'uomo economico dimezzato del nostro tempo recente deve ritrovare quella unità perduta di spirito e materia, deve raccogliere le vie che la ragione indica per andare al di là di essa, deve abbandonare lo spirito di dominazione sul mondo e sugli altri, diventato pericoloso perché gli strumenti sono troppo potenti.
Sì. Mi pare vi sia una forte esigenza etica sulla quale non mi ero sino ad oggi soffermato. Le arti continuano ad entrare nell'ignoto a partire dal tempo di Orfeo. E l'ignoto è quella parte della realtà a cui non possiamo dare identità. A sua volta l'etica è immateriale ma tutt'altro che ignota, è anch'essa parte della realtà con cui tutti debbono fare i conti. Anche le arti.
Caffo. A questo punto credo sarebbe un errore, visto che è un momento inedito per te, non soffermarsi un secondo su questa questione dell'etica. Il tuo lavoro è tutt'altro che cartesiano come potrebbe apparire: non c'è da un lato la res mentale e dall'altro quella corporale. I colori, le forme, nella loro apparente astrattezza sembrano generare un'idea di mondo molto diversa da quello del conflitto, delle epidemie, delle crisi ecologiche che oggi siamo costretti a vivere. Se un colore e una forma possono stare appesi al loro divenire, senza prendere nessuna forma stabile, significa che c'è un rispetto per la fragilità dell'indecisione che è appunto una forma morale. Questo vedono i miei occhi quando osservo molto del tuo lavoro, perché se c'è un divenire che non approda mai a nessuna forma stabile allora c'è anche un rispetto per questo divenire. Nonostante tutto è proprio vero che l'estetica è etica, come sosteneva Wittgenstein nella sua conferenza sull'etica: entrambe, non solo sono immateriali, ma sono soprattutto incommensurabili. Che idea di mondo concreto morale cela entro sé il mondo astratto dell'estetica?
Griffa. Non so se sono capace di seguirti e mi affido alla pazienza tua e di chi avrà la pazienza di leggere.
A mio parere si tratta sempre di percorsi della ragione, di una ragione non necessariamente cartesiana e comunque per noi occidentali pur sempre figlia di Cartesio. Anche la poesia è figlia della ragione, una ragione gentile che si apre a tutto ciò che essa non può regolare. Mi viene di citare il Calvino delle Lezioni Americane, ma la citazione rimane indeterminata.
Sino a ieri c'erano il mondo animato e il mondo inanimato, la pittura prendeva dei materiali e li trasferiva nel mondo animato, dava ad essi la capacità di trasportare conoscenza, emozione, estasi, persino lo shock spazio-temporale della sindrome di Stendhal. Le montagne erano forme stabili per miliardi di anni, un fiore per poche ore.
E' ancora così, le mucche continuano a partorire e le pietre continuano a non partorire, ma la nostra ragione ha scoperto attraverso la scienza che esiste un universo nascosto in cui tutto è vita, tutto è divenire, le particelle, muovono, si scontrano, si uniscono, partoriscono, nascono e muoiono dappertutto, anche nei monti e nei fiori, il tempo e lo spazio sono le coordinate della nostra dimensione ma non sono più le rotaie fisse dell'universo di Newton.
Che c'entra tutto ciò con l'etica? La mia risposta può riguardare soltanto l'etica specifica del mio lavoro, non un'etica generale che ha i suoi spazi ovunque, dalla religione alla politica alla vita quotidiana.
Si tratta della scelta, fra i suoi infiniti aspetti, della pittura come percorso di conoscenza, scelta che forse, non spetta a me dirlo, può essere assieme estetica ed etica.
Caffo A questo punto, permettimi un passo indietro meno concettuale, quali forme di conoscenza materiale compongono l'arcipelago immateriale? Quali sono stati gli incontri, le persone, i maestri, i luoghi che sono stati centrali nella tua esistenza? Citavi Calvino, penso alla sua leggerezza e al modo con cui racconta di Perseo e la Medusa: alle ali "da montare" sul pesante per trasformarlo in leggero. A come nasca Pegaso, alla bellezza del paradosso di una mucca che partorisce una pietra. Quali sono i volti che hanno "alleggerito" il tuo cammino?
Griffa. Mi è difficile e insolito fare un salto indietro nella memoria. In un testo recente, dedicato ai miei 11 cicli di pittura, ho ricordato quando attorno ai 15 anni andavo in piazza a sentire gli Agit-Prop del partito comunista e tornando a casa passavo alla libreria americana dell'USIS a vedere la pittura di New York. Ed ho ricordato quando negli stessi anni ebbi un'autentica illuminazione davanti ad un quadro di Mondrian. Ti rispondo indicando le letture fondamentali, l'Ulisse e i Cantos, ma anche Gargantua e Pantagruel, e accanto a Joyce e Pound la Terra Desolata di Eliot e il Bosco di Latte di Dylan Thomas. Su quest'ultimo ho fatto un'opera recente, su Eliot ho un progetto che spero di realizzare nei prossimi mesi.
Come vedi molta poesia, ma anche i libri di divulgazione del pensiero orientale che iniziarono a uscire appunto negli anni '50, la scoperta emozionante della bellezza dello Zen, dei Veda, del Tao. E gli scritti e pensieri sull'arte di Matisse che mi fecero adulto. In seguito libri di divulgazione della scienza, Capra, Feymann, Rovelli, e molte, molte letture.
Sono un nomade sedentario che viaggia attraverso le pagine scritte.
Poi le persone, a partire da Aldo Mondino che mi introdusse al contemporaneo quando eravamo ancora ragazzi, Alighiero e Anne Marie Boetti, Filiberto Menna, Paolo Fossati, Maurizio Fagiolo, Germano Celant, il mio maestro Filippo Scroppo, Claudio Olivieri, Carlo Battaglia, Claudio Verna, Marco Gastini come un fratello e Sperone con la compagnia dell'Arte Povera, in sintonia con Anselmo, Penone e Zorio. Essendo un solitario non sono mai andato a cercare poeti e letterati, preferivo leggerli.
Caffo. Pensavo, mentre parlavi, a questa idea dell'essere solitari alla tua serie sulle tre linee con arabesco. Mi pare che ovviamente la cosa interessante sia l'assenza di gerarchia e la tendenza all'infinito ma c'è qualcosa altro: queste linee parallele, per definizione, non si incontreranno mai. Nella risposta che mi hai appena dato c'è come sottotraccia l'idea che contino più le idee in parallelo tra loro che gli incroci, spesso forzati, tra gli individui che queste idee hanno prodotto. Abbiamo deciso, tutti insieme, di chiamare questa tua mostra "Un mondo astratto non basta" forse anche convinti che il compito essenziale non sia contrapporre l'astratto a un presunto concreto ma fare un po' come hai fatto nel tuo lavoro distruggendo la differenza tra la linea, mezzo tradizionale di disegno della forma, e il colore come strumento di riempimento di questa forma. Una distinzione fittizia, appesa alla larghezza del pennello, esattamente come è fittizio il confine che separa astratto e concreto. È celebre un tuo motto, "io non rappresento nulla, io dipingo". Ne sei ancora così sicuro? A me pare che tu abbia rappresentato in modo così esplicito e tangibile un mondo fatto di concretissime energie.
Griffa. Da tempo ritengo che la polemica figurativo-astratto abbia fatto danno sia all'arte italiana sia alla vita di molti artisti. Ho dipinto figure sino a quando mi è parso che fossero divenute superflue e a quel punto semplicemente le ho abbandonate.
Io non rappresento nulla può significare non datemi troppa importanza, e può anche significare che non utilizzo immagini. C'è una contraddizione inevitabile perché si vorrebbe non rappresentare la parte non rappresentabile del mondo, appunto la parte nascosta, ma la pittura è rappresentazione per suo statuto e in definitiva i segni che ne risultano sono anch'essi immagini, figure.
Anche qui la contraddizione non è superabile con un artificio logico bensì con un atto di vita, appunto il dipingere.
Quando Matisse ha affrontato il problema del conflitto linea-colore ed ha inventato le carte ritagliate a mio parere non ha risolto il problema perché il taglio della forbice in qualche modo diventa linea, ma ha costruito un fantastico, altissimo insieme di opere, degne di tutta la vita di un grande artista. E aveva 80 anni.
Da qualche parte ho scritto che la differenza fra linea e colore a mio parere dipende dalla larghezza del pennello e dal modo di posarlo, direi che la ragione, l'idea astratta non va disgiunta dall'azione. In qualche modo è qualcosa di simile a ciò che accade quando l'energia indifferenziata del mondo si concreta nelle particelle e questi costruiscono una mucca e una pietra, oppure una linea e un colore.
E in quest'ultimo caso la rappresentazione coincide con l'evento.
Ecco, un mondo astratto non basta, anche la astrazione è un evento reale, grazie alle particelle anche il mondo immateriale è un mondo concreto, tutti i pensieri di tutti sono parte della realtà, i segni del pennello sono reali come le pietre e le mucche.
Realtà dunque di spirito e materia, uniti nelle arti in un legame indissolubile, altrimenti non si capirebbe come un suono, una parola, un segno possano illuminarci di immenso.
Nulla di nuovo, anzi qualcosa di molto antico.
Con un piccolo passo ulteriore. Essendo probabile che l'energia primaria del mondo non abbia tempo e spazio, là non vi è un prima e un dopo e neppure un là, l'evento si arricchisce perché passa da uno stato indeterminato alla nostra configurazione temporo-spaziale.
Ed io mi chiedo se quella forte continuità che sento nella storia dell'arte, nonostante le fortissime differenze fra un tempo e l'altro e fra un luogo e l'altro, tragga la sua origine dal profumo, che non più di un profumo può essere, di quello stato originario di energia indefinita in cui non vi sono né prima e dopo né qui e là, né tempo né spazio.
Caffo. "Sopra tutto ciò che non mi è dato sapere, devo tacere". Come è noto la settima e ultima proposizione del Tractatus di Wittgenstein spinge la filosofia a un misticismo che, secondo molti e che ritrovo in questa tua ultima e meravigliosa risposta, la consegna all'arte. C'è, appunto, un irrapresentabile del mondo che pure, in qualche strano modo, dobbiamo provare a rappresentare abitando un paradosso che poi è quello delle "cose ultime". Le grandi domande di senso, certo, ma anche come suggerivi tu questa energia indefinita e fuori dalla mediocre linea del tempo che ci siamo dati. Il tuo lavoro viaggia, come le linee e i colori che proponi, a cavallo tra molti mondi: c'è la fisica più recente, c'è la filosofia del divenire, c'è la letteratura. Non vorrei, se posso, banalizzare questa intervista o dialogo come un semplice corollario di altro - nelle tue parole c'è il desiderio di dire qualcosa di così urgente, eppure di così palese: non c'è nessun pensiero sensato che non si traduca in una forma di vita. Un artista, per me, non è solo le sue opere (e qui, ti prego, darmi un secondo per spiegarmi); è il suo operato, appunto la forma di vita e la capacità di seguire una regola e una disciplina quasi privata rispetto al mondo in cui è stato gettato, e con cui non può, quasi per natura, che essere in conflitto. Che forma di vita, utilizzo appunto questa formula così cara non a caso a una tradizione che va da Agostino a Wittgenstein, c'è dietro una forma d'arte come la tua?
Griffa. Il tuo richiamo ad Agostino e Wittgenstein mi sorprende per la sua pertinenza con il mio metodo di lavoro. Paolo Fossati una volta mi disse che ogni giorno io andavo "à la Trappe". La icona del genio sregolato non fa al caso mio. Ho una vita felicemente regolata dalle necessità del lavoro, casa e studio, studio e casa, a letto presto. Ho dovuto lavorare tutta la vita, ho fatto anche un altro mestiere, ma non ho mai accettato l'idea del lavoro come punizione, anzi ritengo che il lavoro sia la più alta e straordinaria invenzione dell'umanità. Dalla amigdala al computer, col lavoro l'uomo ha costruito e costruisce il suo mondo, realizza se stesso.
Si, c'è un certo conflitto con il lavoro come mero strumento di guadagno, il denaro come risarcimento della pena lavorativa. Il guadagno può ben esserci ma non è l'essenza come mi pare sia per l'uomo economico dimezzato.
Una disciplina, anzi una autodisciplina del proprio lavoro non è una limitazione della libertà ma la sua realizzazione. L'idea astratta di libertà allo stato puro, di sé sola, può divenire un alibi per la schiavitù peggiore, la violenza.
Torniamo alla energia indifferenziata dell'universo che diviene particella, alla particella che lavora e diviene mucca o pietra, io vedo un disegno generale per cui non si può separare l'idea dall'azione.
E il lavoro mi pare si innesti perfettamente in questa lettura.
Caffo. Va bene, torniamo a questa energia. Però questa volta voglio essere un po' più "diretto". Parli di, "disegno generale": ti riferisci a Dio? Che rapporto hai con la causa finale? Se ti immagini Dio, com'è?
Griffa. A mio parere le arti non danno risposte, si limitano ad aprire la porta e qui tu devi arrangiarti.
Invece le religioni rispondono alla necessità umana di dare identità a tutto, anche all'ignoto.
Se ricordo bene, in India il Braman, così mi pare si chiami il principio fondamentale, non può avere nessuna definizione, identità indistinta, e dunque a mio parere là sono nate centinaia di divinità perché ciascuno di noi possa trovare nell'ignoto ciò di cui ha bisogno, entrare in sintonia con gli aspetti concreti più vicini al suo modo si essere, cioè le singole divinità, possa trarre forza d'animo, consolazione, fiducia, trarre energia vitale da quella parte del mondo che non conosciamo.
Credo si debba un grande rispetto a tutte le religioni per questa loro funzione e per le altre connesse. Non so se questa mia idea di un disegno generale derivi dalla educazione religiosa che ho avuto oppure dalle scoperte più recenti della scienza che attestano la presenza di una intelligenza inarrivabile, generalizzata dal micro al macrocosmo, ed in buona parte misteriosa.
Allo stato attuale possiamo ipotizzare la danza delle particelle microscopiche, un miliardesimo di un miliardesimo di un miliardesimo di millimetro o giù di lì.
Dalla danza nascono stelle infuocate e pianeti freddi, intere galassie, buchi neri, materia oscura, esplosioni nucleari e ghiacci eterni, ed anche mare e cielo, monti e valli, alberi e frutti, persone e animali, organismi meravigliosamente complessi, ed anche ponti e ferrovie, navi e aerei, città e paesi, ed anche pensieri e memorie ed il profondo inconscio senza fondo in ciascuno di noi, ed anche Mozart e Dante, Eraclito e Newton, la Divina Commedia e le Nozze di Figaro, ed anche Partenone e piramidi, e puoi continuare tu quando avrai una notte senza sonno.
Io non sento la necessità di dare nome e identità a questa inarrivabile intelligenza, la pittura non ne ha bisogno perché appunto le arti si limitano ad aprire la porta.
Caffo. Mi pare forse eccessivo tirarlo ancora in ballo, ma pensavo alla teoria dei giochi linguistici di Wittgenstein formulata nelle sue Ricerche Filosofiche (1953). Noi pensiamo di dare nomi alle cose, e che questo sia il linguaggio, ma in realtà la nostra competenza linguistica è molto più legata all'uso e dunque esprime, ancora una volta, una forma di vita. È complesso, ma forse come suggerivi adesso necessario, provare a esistere non dando nessun nome a molte cose essenziali delle nostre forme-mondo - "anche se un leone potesse parlare", ci dice appunto Wittgenstein, "noi non potremmo capirlo". Un leone, in questo senso, non è diverso da un Dio. Anche se un Dio potesse davvero prendersi la briga di dirci qualcosa, temo segua dall'idea che abbiamo di lui sostenere che non potremmo capirlo: la mente non sottile è limitata, costretta alla gabbia della ragione o di quella che intervistando Franco Battiato sul senso della sua musica, ho ricevuto una risposta davvero simile a quella che mi hai appena dato; pensavo che, forse, tutti coloro che cercano una strada espressiva senza sforzarsi di renderla tassonomica arrivano a conclusioni non dissimili. Ci resta di fare tesoro di una sorta di principio di indeterminazione non solo fisico ma anche, e forse soprattutto, metafisico. Su cosa stai lavorando adesso e quanto influisce questo "principio" sul tuo lavoro attuale?
Griffa. Sto lavorando contemporaneamente ai tre ultimi cicli, ora uno ora l'altro senza nessun ordine, al ciclo Canone Aureo con il numero di Euclide che non finirà mai ed ogni volta ricomincia su ogni tela, al ciclo Sciamano con le parole incomprensibili senza identità (per esempio OKUPOTUMOZ), al ciclo Dilemma con la convivenza degli opposti (per esempio DAVANTIDIETRO).
Una volta scrivevamo in latino adesso scrivo in italiano e in inglese. E curiosamente le parole scritte hanno preso a diventare esse stesse immagini con qualche lontana analogia con la forma della scrittura dell'Oriente. La sintonia con quanto ti rispose Battiato mi conferma l'opinione che tutte le arti hanno un fondo comune.
Dici bene, il principio di indeterminazione non appartiene soltanto alla scienza.
Caffo. grazie Giorgio.
Le regole del gioco
Alberto Fiz
iononrappresentonullaiodipingo è la frase-manifesto pronunciata da Giorgio Griffa in occasione dell'omonima mostra organizzata nel 1972 alla galleria Godel di Roma. E nel 2021 quest'affermazione, diventata celebre, sembra trovare il suo completamento: "I segni primari, le contaminazioni e ciascuno degli undici cicli che ho realizzato mi avvicinano alla fase del passaggio dalla energia giacente all'idea"(1). Sono passati quasi cinquant'anni da quel lontano 1972, il mondo non è più lo stesso, ma, undici cicli dopo, l'azione di Griffa non ha perduto lucidità e lungimiranza. Anzi, quel gesto silenzioso, all'apparenza bloccato, come "appoggiare il colore dentro la tela" si rivela oggi in tutta la sua provocatoria vitalità. Dalla fine degli anni sessanta (la sua prima mostra personale alla galleria Martano di Torino risale al 1968), Griffa libera la pittura dal suo stato ancillare nei confronti della rappresentazione senza, tuttavia, rinunciare alle sue infinite potenzialità e implicazioni. Evita, cioè, di finire inghiottito da una prassi diffusa sino alla metà degli anni settanta quando la pittura veniva sottoposta ad un progressivo azzeramento. Per essere accettata, infatti, doveva risultare il più possibile neutra e oggettuale rinunciando ad una parte della propria specificità. Una pittura residuale, insomma, dominata dal non-gesto.
Griffa, che prende parte all'esperienza della pittura analitica, modifica radicalmente l'approccio nei confronti del media: non chiede alla pittura un atto di sottomissione, né la sottopone alla ferrea cura razionalista in base alle linee-guida di Sol LeWitt, ma le consente di farsi azione, di concretizzarsi sulla tela attraverso la mediazione dell'artista testimonial. E' lui stesso lo strumento della pittura, il tramite (non a caso un ciclo recente s'intitola Sciamano) che si mette in ascolto, senza la volontà di compiere un atto di prevaricazione; il dipingere assorbe la totalità in perenne trasformazione nella consapevolezza che "ogni segno del pennello è un fenomeno reale; ogni pezzo di tela è un pezzo di realtà" (2). Tutto ciò va incontro ad una precarietà consustanziale rispetto ad un processo non definitivo, in perenne mutamento, che si pone come costante approssimazione. Quasi dipinto è, non a caso, l'emblematica definizione che Griffa attribuisce, nel 1968, ad uno dei suoi primi gruppi di lavori. La superficie viene coperta solo in parte, talvolta minima, evitando di completare un percorso che scorre all'infinito dove ciò che conta è occupare lo spazio. "Il mio non finito ha assunto col tempo una valenza inaspettata, significa omettere sulla tela il punto finale che, così come il punto finale di questa frase, la proietta all'istante nel passato" (3).
Sono tracciati possibili, ipotesi plausibili, filamenti che appartengono alla catena di un immaginario DNA dove tutto è connesso ma, nello stesso tempo, ciascun tassello può essere veicolato in solitudine mantenendo una paradossale autonomia.
In una prima fase Griffa utilizza segni primari che si dispongono sulla tela in maniera ordinata: verticale, obliquo, orizzontale. In altre circostanze, le sequenze sono formate da punti, virgole, impronte del dito, del pennello o della spatola. Sono segni reiterati, ogni volta differenti, che appartengono alla memoria collettiva e l'artista ha il compito di trasferirli sulla superficie senza alcuna pretesa gerarchica. Ciascun elemento, in maniera paritetica, diventa parte del processo, compreso il supporto privo di telaio che con le sue imperfezioni interferisce sul risultato finale. E' la pittura ad assumere il comando delle operazioni evitando di farsi trascinare nell'anonimato come spesso avviene nel palinsesto degli anni sessanta e settanta. I segni appartengono a tutti (Tutti i pensieri di tutti è il titolo della sua mostra proposta nel 2020 a Palazzo Collicola di Spoleto) e contengono in nuce la memoria della pittura riattivata dal gesto dell'artista, parte in causa di un processo refrattario alla componente narcisistica e autoreferenziale. "Prefiguro l'oblio di me stesso" (3), afferma Griffa che ripropone una vicenda millenaria, ampiamente sedimentata, dove il segno espanso coinvolge l'intera moltitudine e in questa prospettiva risuona il titolo di una sua personale alla galleria L'Isola di Roma 30.000 anni di memoria.
La pittura, dunque, è materia in azione che reagisce a contatto con la superficie ed esprimere una propria energia, al pari del piombo o della cera. Essa prevede un processo entropico di modificazione partecipando direttamente all'atto conoscitivo e sebbene si presenti all'appello con una coscienza antica, l'uso che Griffa ne fa ha molti aspetti in comune con l'arte povera, un fenomeno che ha come epicentro Torino e si afferma contemporaneamente alle prime uscite pubbliche di Griffa. Ed è proprio quest'ultimo a ricordare le convergenze in occasione di una sua mostra, nel 2000, alla galleria Salzano di Torino: "Un cuoio attorcigliato produce una forte energia per tornare allo stato libero, un albero imprigionato da una mano di ferro modifica la propria crescita sino ad inglobare l'oggetto non più estraneo, un elemento combinato in una reazione chimica genera energia a tempo indefinito. L'intelligenza della materia non veniva usata quale strumento di nuove sintesi formali, peraltro inevitabili, ma diventava protagonista dell'opera, la mano dell'artista posta al suo servizio. Analogamente, essendo io convinto dell'intelligenza della pittura, ponevo la mia mano al servizio dei colori che incontravano la tela, limitavo il mio intervento al gesto semplice di appoggiare il pennello" (4).
La pittura è in grado di acquisire una coscienza partecipativa che va oltre il suo status formale. Per questa ragione i segni primari, al contrario di quanto erroneamente si possa pensare, rappresentano una prassi linguistica dinamica, lontana da una tautologia concettuale fissa nel tempo. Sono particelle che innescano una serie pressoché infinita di combinazioni dando vita ad una ricerca che nei suoi tanti passaggi si trasforma pur mantenendo inalterati taluni elementi fondamentali quali il ritmo (ma si potrebbe ipotizzare anche la ritualità), la sequenza, il non finito. Sullo spartito le variazioni sul tema si aprono a nuovi scenari con la pittura stessa che suggerisce i cambiamenti: "Sono semplici variazioni fisiologiche fra vari percorsi, sono sentieri diversi nella stessa foresta oscura" (5). Tutto ciò appare evidente nella personale di Griffa allestita dallo spazio genovese di ABC-ARTE dove, sia pure sinteticamente, si sviluppa una vicenda che spazia dal 1969 al 1987 con oltre cinquanta opere, in prevalenza degli anni settanta. Un mondo astratto non basta è il titolo della rassegna che pone come questione fondamentale il rapporto con la realtà da parte di una pittura che si pone come esistenza imprescindibile: "Fare per immagini è faccenda diversa dal fare immagini. Significa avvalersi delle immagini per scovare le infinite possibilità di poesia che si celano nel mondo" (6).
L'artista è parte del tutto all'interno di un processo dove l'azione va ad interferire direttamente sul fenomeno e in tal senso Griffa fa proprio il principio d'indeterminazione di Werner Heisenberg trasportandolo dal piano scientifico a quello artistico. Il fenomeno della pittura è di per se stesso variabile e si modifica in base all'azione compiuta su di esso attraverso un'interazione tra l'io e il mondo: "Il principio di Heisenberg", scrive Griffa in un suo saggio illuminante, "si colloca in modo palese nell'ambito del rapporto fra l'uomo e il mondo, non è una definizione del mondo, non guarda alla struttura della materia, ma alla struttura dell'osservazione della materia...da qui viene la dinamica di un rapporto di continui rimandi fra la libera invenzione della materia e la verifica dell'esperienza, un ping pong in senso reciproco anziché un gioco a senso unico" (7). I segni primari, dunque, non sono inerti ("puritani" li definisce Griffa) ma contengono la memoria della pittura in atto e l'artista sviluppa questa potenzialità consentendo a ciascun elemento di posizionarsi in maniera differente accelerando i flussi infinitamente variabili d'informazioni. Sono ben undici i cicli che si susseguono senza soluzione di continuità sino ad oggi con progressive contaminazioni, interferenze, frammentazioni, sovrapposizioni, stratificazioni. "Talvolta mi diverto a occultare da qualche parte i segni primari. Non c'è nulla di mummificato nella mia pittura che ha il compito di riattivare la memoria", mi racconta Griffa che all'età di 85 anni si muove con leggerezza e ironia intorno alle sue tele che osserva di soppiatto lasciandosi ancora sorprendere. Ogni serie sembra contenere quelle precedenti in base a quel principio di complementarietà formalizzato da Heisenberg. Di fronte all'acquisizione di nuovi dati, la realtà si anima e rinuncia a parte del suo ordine ascetico per ospitare individualità disparate. Nella cosmologia creata da Griffa, prevale, sin dalla seconda metà degli anni settanta (ma non mancano segnali in questa direzione già nel 1968 come dimostra, ad esempio, un'opera come Dall'alto e da destra incrociato) la logica delle contaminazioni che, oltre a rappresentare un ciclo specifico, costituisce il filo rosso di tutta l'indagine successiva ai segni primari: "Le linee rette convivono con quelle spezzate, con le curve, i segni più larghi, i quadrati e i rettangoli, così come una quercia sta vicino ad un castagno, e ciascun genere è composto di individui diversi fra di loro" (8). Basti pensare a Alter Ego, Frammenti, Segno e Campo, Tre linee con arabesco. In quest'ultima circostanza, Griffa unisce l'elemento ornamentale, finalmente sdoganato dopo il lasciapassare accordato da Matisse, con tre linee non meglio identificate. La struttura semplificata della composizione nasconde, però, un'infinità di altri elementi che hanno come riferimento l'intero campionario segnico di Griffa, un nomade sedentario che, come un personaggio felliniano, si porta sempre appresso il suo baule di ricordi. L'inclusione prevale sempre sull'esclusione in un processo ontogenetico che sembra ripercorrere ogni volta, per intero, il suo iter creativo dove la memoria della pittura si compenetra con quella dell'artista. Tre linee con arabesco, poi, introduce un altro elemento, il numero, già presente nel titolo, che da allora entrerà a far parte del suo alfabeto segnico anticipando il successivo ingresso delle lettere e del linguaggio. Si tratta di un elemento funzionale all'elencazione delle opere identificate da una successione cronologica. Tuttavia, se da un lato l'archiviazione prevede un aspetto razionale e ostentatamente documentaristico, dall'altra i numeri, nel loro incessante susseguirsi, si fanno enigma e si disperdono nel cosmo. Per comprendere la numerazione sarebbe necessario recuperare l'intera serie in un medesimo luogo, cosa evidentemente impossibile. In tal modo, quando Tre linee con arabesco vengono presentati ci si trova di fronte a sequenze illogiche, apparentemente casuali, spezzando alla radice la logica iniziale secondo una regola occultata a cui il solo autore può accedere. Del resto, il paradosso scientifico-filosofico appare ancor più evidente nel ciclo Canone aureo dove Griffa fa uso del misterioso numero irrazionale algebrico (1,618033…) che identifica la divina proporzione all'origine della bellezza sin dai tempi delle Piramidi ma che non trova in matematica una precisa corrispondenza. Come avviene per la meccanica quantistica, lo si può applicare ma non definire: "Sotto il profilo del tempo quel numero procede ormai da circa 2300 anni e andrà avanti nei secoli, nei millenni, nei milioni di millenni, senza fermarsi. Mai. Sino alla fine del tempo. E' un modo di conoscere l'infinito attraverso la modesta presenza di un piccolo numero" (9).
Nella sua opera non c'è alcun passaggio formale o semplicemente estetico; tutto si sviluppa all'interno di un database composto da linee, tracce, campi cromatici, numeri e lettere pronti a deflagrare nell'imprevisto secondo una logica dominata dall'ignoto: "Il segno primario porta con sé il mistero del suo divenire senza velarlo con la rappresentazione della realtà materiale" (10). Insomma, un mondo astratto non basta e Griffa attraverso un'indagine frammentaria e frammentata, indicibile e coraggiosa, ci pone di fronte alle profonde contraddizioni della contemporaneità.
(1), G. Griffa, Undici cicli, Allemandi Editore, Torino 2021. Il volume ha ancora una numerazione provvisoria e verrà pubblicato nei prossimi mesi.
(2) G. Griffa, ibidem.
(3) G. Griffa, Post Scriptum, Hopefulmonster, Torino 2005, p.137.
(3) G. Griffa, op. cit.
(4) G. Griffa, Intelligenza della Materia, galleria Salzano, Torino, 2000.
(5) G. Griffa, op. cit.
(6) G. Griffa, Giorgio Griffa, Silvana editoriale-Galleria Fumagalli, Milano 2005, p.125.
(7) G. Griffa, Il principio di indeterminazione, Maestri Incisori editore, Milano 1994, p.6.
(8) G, Griffa, op. cit.
(9) G. Griffa, Giorgio Griffa. La Divina Proporzione, Studio Guastalla Arte Moderna e Cntemporanea/Edizioni Graphis Arte, Milano 2010, p.8.
(10) G. Griffa, op. cit.