Fino al 25.IX.2015 Mauro Vignando, All that's missing is you Abc Arte, Genova
Andrea Rossetti, Exhibart, Settembre 17, 2015
Un baluardo del fine eclettismo all'italiana, Mauro Vignando (Pordenone, 1969), curato dall'istrionico Milovan Farronato. "All that's missing is you", in quello che sembra il titolo per una hit smielata c'è il viscerale riff della perdita in quanto sottrazione fisica (e formale), un concetto spalmato un po' ovunque in diverse tipologie. Perdita materiale (chiacchierando con Antonio Borghese - fondatore della galleria - salta fuori che alcune opere sono state oggetto di furto a pochi giorni dall'inaugurazione, e prontamente rieseguite), intersecata alla capacità dell'artista di provocare una percezione d'immagine, o di manipolare tatticamente iconografie preesistenti.
Vignando, artista del multipurpose, autore di ciò "piace alla gente che piace" quando crea gli elegantissimi Black paintings, grandi tavole in legno pennellate di nero e prodotto proprio nella stessa sala della galleria in cui si trovano esposte; caratterizzate anche da una compattezza di stesura non sempre assoluta, che si legge come libero atteggiamento nel mostrare manualità pittorica anche entro una scelta monocromatica. Ma tutto sta in ciò che accade subito dopo aver steso l'olio, nella spallata - in senso fisico e non morale - data al total black, passando più volte sul colore fresco, asportando pittura con un'azione apparentemente subitanea, in realtà più studiata di quanto non voglia sembrare, con passaggi ripetuti che al caso lasciano spazio relativo.
Un metodo invasivo che non pare immune dal prodursi - in un paio di casi perlomeno - in macchie chiuse, poco valevoli sotto il profilo della costruzione pittorica, pur mantenendo nei contorni variamente sfumati il bel racconto della pressione "di sottrazione". Sono altre infatti le occasioni in cui l'artista riesce a creare attorno a tali opere un interesse pittorico in sé, ossia quando il proprio passaggio auto-genera le forme costruttivo-delimitative di orizzonti nebulosi dalle sfumature calde, paesaggismo tarato sul fotograficamente fané, dove le venature del legno emergono tra i "rimbalzi" fisici visibilissimi sulla superficie, e anche i pelucchi lasciati dagli indumenti, ora seccati tra la pittura, si fanno impressione del "tempo creativo" sotteso nell'opera.
É un altro Vignando quello che si applica su immagini pregresse. Prosegue sul filone sottrattivo, ma ad esempio diventa più icastico nella riduzione visiva di un crocifisso stretto sulle braccia di Cristo, simulacro nel simulacro della sua ultima traccia iconografica riconoscibile. E si trasforma nuovamente nel morfismo dellePostcards, coppie di cartoline con divi del cinema d'antan, volti ritagliati, matchati e reinventati. Come per i Black paintings vale la cernita tra risultati meno potenti (l'accoppiata Rossano Brazzi e Fosco Giachetti, in cui il gioco regge poco per via di pose/espressività piuttosto similari), e scelte caratterialmente più attive, che vuoi o non vuoi colpiscono - sdrammatizzandolo, perché no - l'attuale tema dell'identità di genere (uno dei casi più interessanti nell'ibridazione estrapolata dall'incontro tra Andrea Cecchi e Isa Miranda).
A questo livello il ruolo "tangenziale" del curatore non fa più per Farronato, incarnazione fondante della "persona informata sui fatti" (certo bisogna aver presente il "personaggio" Farronato), tirata dentro con tutte le scarpe. Pur se, chiamato in causa, è lo stesso Vignando a dichiarare come rappresenti «un caso che questa serie sui divi (su cui non avevo ancora lavorato) sia stata presentata in occasione di questa mostra». Ma il caso di norma è strano, e arriva dove l'uomo non immagina. Per fortuna.