Due vecchie conoscenze più due nuovi arrivi. Totale quattro, il numero perfetto per ripartire in questo 2020 secondo ABC-ARTE. “Where the unmisurable meets the measurable” (fino al 13 marzo) è la collettiva – non troppo collettiva – ideata da Flaminio Gualdoni nel rispetto dell’unicità di Tomas Rajlich (Praga, 1940), Nanni Valentini (Sant’Angelo in Vado, 1932; Vimercate, 1935), Alan Bee (Karlsfeld, 1940; Monaco di Baviera, 2018), Paolo Iacchetti (Milano, 1953). Quattro artisti, attorno cui far orbitare un sistema di altrettante mini personali. Tante? Data la qualità dei presenti sicuramente abbastanza da imporre una stretta selezione sui pezzi; lavoro che per un gallerista di cuore come Antonio Borghese non è certo una passeggiata. A parlarne con lui, cosa mettere dentro e cosa lasciare fuori pare proprio non sia stato facile.
Accomodatevi, prego
Responsabile dell’accoglienza è Rajlich. Per lui una selezione di pezzi minimal quanto di gran valore; comprensiva di un trittico ad acrilico metà anni Ottanta perfetto sotto ogni punto di vista, dalla spatolata di colore pesante alla tela vivo. E che se la gioca in perfetta sintonia con Valentini e la sua Casa dell’angelo, parallelepipedo materico-allegorico di una terracotta rozza, quanto trattata con un azzurro in digradazione di una dolcezza infinita.
Osservazione pertinente: ma non si era parlato di singole personali? Esatto, tuttavia la realtà dei metri quadri a volte si scontra col pensiero curatoriale. Parlando con Borghese scopriamo infatti che il peso materico di Valentini sarebbe risultato, per così dire, ad ogni modo “troppo compresso” in un unico ambiente.
Chiarito questo, l’artista marchigiano fa solo piccole invasioni di campo, peraltro molto soft. Ve lo raccontiamo attraverso una chicca, Stele, una terracotta che ingloba ogni traccia della sua creazione/presenza senza avvalersi di un proprio equilibrio. Appoggiata sia in senso trasversale, sia longitudinale, è una scultura che dichiara il suo non appartenere alla monumentalità della statuaria, esponendosi nella vulnerabilità di un pezzo in transizione perenne. Pezzo attraverso cui Valentini sembra perpetrare il racconto di un tempo passato. Una sorta di tempus fugit espresso in tutta la schiettezza del metodo Valentini.
Alan Bee, l’artista del mistero
Terza voce del quartetto è Bee. Sulla carta il più intrigante tra i presenti dato che a questo nome, citiamo dalla biografia, corrisponde “lo pseudonimo di un noto industriale e uomo di finanza tedesco”. Niente di più e niente di meno. Arrivato a Genova per intuizione di Gualdoni, qui i suoi pezzi variano tra gli anni settanta e i primissimi novanta. Tra l’ossessivo amore per le api – da qui lo pseudonimo – e l’onnipresente inclusione nelle opere di una rete di esagoni in maglia metallica.
Ad un primo contatto Bee dimostra un’identità composita, mai piatta. Si divide tra il naturalismo di toni bruno-ambrati, che generano un simil-favo; e le stratificazioni dall’artificialità assoluta, dove mescola il tema-esagono con un sostenuto dripping dai toni brillantissimi. Anche celandolo, come una traccia in background dietro strisciate impattanti di colore materico.
Non soddisfatto, amplia ancora il proprio ventaglio di possibilità allargando la rete, riempiendo colore per colore ogni singola cella. Ma soprattutto incappando, volontariamente, in un inesorabile faccia a faccia coi propri limiti. Perché?
Perché la percezione di superficie è di trovarsi ad osservare l’impegno di un uomo inquadrato nel campire, ma che alla fine decide di rompere gli schemi; di cedere il passo e buttare lì la gestualità di qualche schizzata di getto. Aprendosi un varco, una via di fuga in sovrapposizioni cromatiche che inesorabilmente portano a cretti incontrollati. Quasi salvifici.
Nei potenti mixed media di Bee c’è sempre un fondo di perfezione, di costruzione rigorosa. Ma anche la sua negazione. C’è la ricerca – altalenante, tra pezzi riusciti e altri un po’ meno – di un uomo che porta avanti la folgorazione per un mondo di regole. Parallelamente alla consapevolezza del proprio essere “umano”, quindi “imperfetto”. Ci si trova davanti all’opera di un uomo inquadrato per mestiere, ma pronto semmai a gettare la maschera.
Iacchetti, che altro?
Paolo Iacchetti, ovvero quando non hai dubbi di ritrovarti di fronte ad un artista d’esperienza. Per lui “piccolo” è sinonimo di “molto meglio”. La chiave del successo per un uomo che quando confeziona le sue maglie di segni fluido-analitici in lavori da borsetta, come il recentissimo Numerazione alfa (esattamente 32×33 centimetri), è adorazione al primo sguardo.
Iacchetti pensa da miniaturista agendo da quadraturista, creando una composizione dove ogni rapporto cromatico corrisponde ad un crescendo prospettico. Dal celeste compatto, che trapela sul fondo all’arancio del primo piano, passando per il giallo; nulla viene lasciato alla casualità, nemmeno il bordo laterale della tavola, campito rigorosamente nella dominante nuance arancio. E sono 32×33 centimetri di smisurata perfezione.