Giorgio Griffa. Un mondo astratto non basta, ABC-ARTE, 2021, installation view
Intervista a GIORGIO GRIFFA di Davide Silvioli
Dopo Palazzo Collicola di Spoleto e la Kromya Art Gallery di Verona, il lavoro di Giorgio Griffa, fra i maggiori esponenti della ricerca pittorica internazionale, è protagonista di una personale, dal titolo Un mondo astratto non basta, presso la galleria ABC-ARTE di Genova. La mostra, che consolida il legame storico fra il maestro torinese e il capoluogo ligure, propone una selezione ragionata di circa quaranta opere ed è accompagnata da una monografia, contenente un dialogo fra l’artista e Leonardo Caffo, insieme a un saggio critico di Alberto Fiz.
Giorgio Griffa, Linee orizzontali, 1973, 86x130cm, acrylic on jute
Partendo dalla mostra, questa si concentra su una selezione di opere compresa fra il 1969 e il 1987, per lo più afferente al ciclo dei “Segni primari”. Quali sono le proprietà che contraddistinguono questa serie di opere?
La pittura ha una memoria immensa, decine e decine di migliaia di anni prima dell’invenzione della scrittura. Posare i segni sulla tela, nudi nella loro identità, mi pare ci aiuti ad entrare in quella immensa memoria indifferenziata, ogni specificazione sarebbe riduttiva. Questo sistema prosegue negli altri cicli del mio lavoro percorrendo sentieri diversi, ma qui nel ciclo dei segni primari esso si presenta nella sua configurazione originaria.
Stiamo vivendo l’inizio di un cambiamento enorme, forse paragonabile a ciò che furono le invenzioni della metallurgia e della scrittura. Dunque, abbiamo quantomai bisogno delle nostre radici per non perderci. E questa riflessione sull’antico, che in pochi decenni ha giustiziato la pretesa di uccidere l’uomo antico per costruire quello nuovo, ci riporta al presente.
Questi segni nudi, fissati un momento prima che divengano figure, corrispondono al momento del passaggio dall’energia indefinita delle particelle ai neuroni del nostro cervello, nascita delle idee, ed anche agli atomi di un fiore, una farfalla ed un sasso, nascita della materia.
Giorgio Griffa. Un mondo astratto non basta, ABC-ARTE, 2021, installation view
In questo ciclo, così come, più in generale, in altri esiti della tua ricerca, la superficie della tela non viene mai occupata totalmente. Quale valore assume il “non finito”, nella tua pratica pittorica?
All’inizio vi fu un pensiero che ha un vago sapore di Zen: non posso andare sino in fondo perché nel frattempo la vita è andata avanti. Pensavo ai monocromi di Yves Klein e feci alcune tele monocrome col titolo “quasi dipinto”. Seguirono sequenze di segni orizzontali, verticali, obliqui, impronte, linee, segni di ogni genere, ripetuti ritmicamente uno dopo l’altro, eguali eppure diversi, appunto Segni Primari, che occupano una parte della tela, la quale prosegue nuda. Il non-finito continua in tutto il mio lavoro, da allora sino ad oggi e ha vari aspetti.
Il non-finito in qualche modo ci avvicina all’infinito, entrambi non hanno fine. Il non-finito omette di arrivare a quel punto finale che all’istante proietta nel passato, simboleggia lo stato delle arti che nascono dalle conoscenze del loro tempo a continuano a vivere nei tempi e nelle conoscenze successive.
Il non-finito porta una fertile contraddizione perché in realtà ogni opera è un’opera finita. Da un lato c’è un senso di continuità. Dall’altro c’è la discontinuità fra un’opera e l’altra, cambiano i segni, i materiali, le forme. Il colore una volta è liquido un’altra è solido, il segno una volta è leggero un’altra è pesante (questo è l’aspetto analitico). Similmente nella storia le fortissime divergenze fra tempi e luoghi diversi convivono con un altrettanto fortissimo senso di continuità nella esplorazione della parte nascosta del mondo e di noi stessi.
Per quanto io fossi all’epoca in un giovanile stato di confusione diverso da quello senile di oggi, posso dire che probabilmente quelle parole preludevano a vari aspetti della mia pittura di cui sono venuto consapevole in seguito, in primo luogo la scelta di segni privi di una connotazione personale mia, segni che possono appartenere alla mano di tutti, primato della pittura e della sua memoria millenaria sul pittore e sulla sua memoria breve. Oblio di me stesso.
Io non rappresento nulla significa anche non datemi troppa importanza. Fare pittura significava, credo, continuare una storia lunghissima, scommettere sulla capacità di questo antico strumento di raccontare la nostra modernità, di continuare ad essere viva.
Non penso che oggi sia cambiato molto e credo che la pittura stia semplicemente andando dove è sempre andata, accompagnarci nella conoscenza del mondo e di noi stessi laddove la ragione da sola non basta. Le differenze stanno nel fatto che, di volta in volta, le arti si avvalgono delle conoscenze del loro tempo, con le conseguenti differenze formali da tempo a tempo e da luogo a luogo. Ma la sostanza conoscitiva è sempre quella.
A tuo avviso, l’attuale società tecnocratica, dove la tecnica è il soggetto della storia, concede margini d’azione alla ricerca estetica sulla parte irrazionale e immateriale dell’esistenza?
Direi che questa condizione sia riferibile piuttosto al secolo XIX quando il trionfo positivista vide rifugiarsi le arti e le filosofie nel Romanticismo.
Oggi l’universo razionale e perfetto di Newton ha lasciato il passo ad un universo in cui più dell’80% è materia oscura, sconosciuta. Il momento simbolico del passaggio è il Principio di Indeterminazione di Heisenberg (1930), per cui non possiamo conoscere insieme posizione e velocità di una particella in quanto l’energia che usiamo per determinare un aspetto rende indeterminato l’altro. Ne è derivata la meccanica quantistica.
Al di là dell’aspetto scientifico, che esce dalla mia competenza, qui l’ignoto entra ufficialmente nella scienza non più come qualcosa che non è ancora conosciuto bensì come qualcosa che non è conoscibile. Le arti e le scienze hanno ripreso un colloquio antico fra di loro.
Inoltre, noi facciamo parte del fenomeno osservato in quanto con la nostra osservazione lo modifichiamo. Mi piace pensare che potrebbe esservi una intuizione di questo aspetto quando Raffaello mise il suo autoritratto nella Scuola di Atene.
Ho avuto la fortuna di imparare molto da molti. Nell’area analitica, da Filiberto Menna, che pur mi avrebbe voluto più vicino al suo pensiero, a vari pittori, Claudio Verna, Carlo Battaglia, Claudio Olivieri e altri. Penso di aver imparato da loro a mettere la memoria della pittura davanti alla memoria mia. Nell’arte povera direi soprattutto Giovanni Anselmo e Giuseppe Penone, ma anche gli altri e Germano Celant. Penso di aver imparato da loro a mettere la mia mano al servizio dell’intelligenza della materia, a passare dal principio di dominazione sulla natura al principio della interazione con la sua intelligenza.
Da Support-Surface, Claude Viallat mi ha insegnato la forza del ritmo. Una volta ebbi a montare su telaio alcune opere di Robert Ryman e questo contatto mi diede una bella carica di energia. Probabilmente, Paolo Fossati mi aiutò a guardare più in largo delle varie tendenze.
Oggi a 84 anni credo, o mi illudo, di non aver ancora smesso di imparare.
Mi sembra una buona sintesi: “impossibile giungere a una condizione definita”. Credo che questo sia un succo della poesia. La ragione ci accompagna ai suoi confini, ci aiuta a superarli e ci consente di conoscere quella condizione di sovrappiù in cui essa convive con il nostro intimo più segreto e profondo, che portato a galla si dissolverebbe. Se ben ricordo, da qualche parte Calvino ha scritto pressappoco (dico con parole mie) che la poesia ha bisogno della ragione e la ragione si pone al suo servizio, ben sapendo che sarà sconfitta. Io non penso a una sconfitta ma ad una vittoria di entrambe.
Al di là delle funzioni narrative, rituali, celebrative che si succedono nella storia, penso che la pittura, con le altre arti, porti sempre con sé questo suo aprire la porta sul sovrappiù tramite l’emozione, la irresistibile ricerca del bello. Quanto poi a trovarlo è un’altra questione.
Giorgio Griffa. Un mondo astratto non basta, ABC-ARTE, 2021, installation view
La tua attività pittorica, negli anni, è stata costantemente affiancata da una considerevole produzione scritta. Nell’insieme della tua ricerca, quale rapporto intercorre fra questi due ambiti?
Direi che il confronto con la parola scritta mi aiuta a comprendere cosa sto facendo. La volontà di conoscenza mi aiuta, non mi fiderei di una volontà di poesia perché la poesia non viene a comando. Non sono pochi i pittori che hanno o hanno avuto bisogno di scrivere. È una sorta di dialettica interna tra il pennello e la penna, si potrebbe anche dire fra il cervello e la mano.
La ricerca di unità tra pensiero e azione può avvenire in un contesto emotivo bollente, come accadeva in Pollock, ma vi può anche essere un contesto più lento, un frutto a lunga maturazione.
Giorgio Griffa. Un mondo astratto non basta
26 febbraio – 24 aprile 2021
ABC-ARTE
Via XX Settembre 11/A, Genova
Info: 010.86.83.884
info@abc-arte.com
www.abc-arte.com