Flaminio Gualdoni
Ragionamento su Hermann Nitsch
Redazione Segno, Segno, Settembre 1, 2023
Fino al 30 settembre, negli spazi della galleria ABC a Genova e ABC - ARTE ONE OF a Milano, la mostra Hermann Nitsch Catarthic Aversion. Proponiamo sulle nostre pagine il testo critico di Flaminio Gualdoni.
Agli inizi, il percorso che Hermann Nitsch immagina per sé è una forma teatrale complessa, il cui la stessa tradizione affastella più elementi di riflessione. Alla fine degli anni Cinquanta, quando il ventenne viennese muove i primi passi, egli immagina qualcosa che riprenda la tradizione medievale dei misteri. L’opera deve trattare una materia simbolicamente complessa, essere “totalizzante” nel senso di coinvolgere gli spettatori in un’identificazione compiuta – non una tranche de vie esperienziale separata e convenzionalmente circoscritta, ma un flusso temporale immersivo che si svolge in un tempo così dilatato da farsi esso stesso la vita – nascente dalla suggestione liturgica e rituale, e toccare corde che riguardano ciascuno nel profondo della sua individualità. Chiaro che Nitsch, viennese anomalo, e anomalo in quanto viennese, legge la diade Freud – Jung e cogliendone molti aspetti non esteriori. Freud è, con Josef Breuer, l’autore dal quale assume la nozione fondamentale di Abreaktion, indicata da Freud nel 1893 come la “scarica emozionale con cui un soggetto si libera dall’effetto legato al ricordo di un evento traumatico evitando così che esso divenga o rimanga patogeno”: Nitsch concepisce situazioni in cui sia possibile negli spettatori, e parimenti negli attori, una “abreazione” contro gli elementi repressi (unterdrückt). Da Jung viene la fascinazione per lo strato simbolico sotteso alla liturgia, al rituale, al mito e alla remitizzazione. Da entrambi egli eredita la necessità di verbalizzare la sua posizione, dandole una giustificazione dottrinaria, che è anche moralistica e sociologica, attraverso gli scritti, spesso prolissi, che costruiscono nel tempo il corpus di Das Orgyen-Mysterien Theater. È parimenti chiaro che Nitsch viene subito identificato come l’autore intorno a cui si coagula quella che in arte si indica come “scuola viennese”, più pertinentemente indicata come Wiener Aktionismus. che lo vede a fianco di Günter Brus, Otto Mühl e Rudolf Schwarzkogler. Parallelo è l’operare di un altro viennese autorevole, il più anziano Arnulf Rainer, maestro dell’Übermalung, sovrapposizione ossessiva di pittura a un’immagine data sino a cancellarla e/o portarla a una nuova dimensione d’esperienza
visiva. In tutti questi casi, alla base è una profonda estraneità alla cronaca, e alla cronaca artistica, il rimontare a una forse utopica “totalità” in grado di sostantivare delle situazioni chiave, affondando in strati oscuri di senso, imperscrutabili o comunque non ancora scrutati. Il tempo è quello in cui si è preso a dire di happening, di body art, di dimensioni apertamente performative dell’estetico, in modo non rigidamente classificatorio. Al centro di quelle vicende, in modo molto nitido, è l’idea della centralità del corpo come soggetto/oggetto pittorico, in una genealogia d’arte radicata nell’action painting ma anche nel dada-surrealismo, a indicare essenzialmente due cose: in primo luogo, la fine della separatezza irrelata e della sacralità implicita dell’oggetto pittorico, dell’enorme storica eredità della “deificazione sociale dell’artista” (André Chastel) che datava al Rinascimento, dall’altra l’affiorare, attraverso il corporeo, di una an-estetica non gerarchica, fondata anche sulla materialità: ne consegue lo schiudersi di un territorio operativo che, tra pittura, teatro, danza,
musica, azioni, si impone come ambito artistico aperto, e sperimentalmente vivace. Se un corporeo può e deve essere, esso non può prescindere dalle sostanze che mette in gioco, auscultate nel profondo.
Scrive lo stesso Nitsch: “la sostanza della sensualità che mi affascinava l’ho vista realizzata dagli artisti informali. essi avevano composto sulla superficie pittorica ciò che io volevo fare nel teatro. improvvisamente volevo riempire di pittura le strutture del mio teatro. sognavo superfici imbrattate, insudiciate. tutte le sostanze che utilizzavo nel teatro dovevano scorrere sulle pareti. sangue mestruale, pus, cera bollente, sterco di vacca, urina dovevano colare e gocciolare in flussi densi. chiazze di melma dovevano esser sbattute sul muro e schizzare. vedevo davanti a me delle pastose e colorate formazioni di melma simili ad intestini, incrostati e addensati nell’applicazione. si doveva aprire un accesso nel subconscio, nel viscido, nell’interno corporeo, nelle cavità, nell’uterino, nel mondo del sessuale, dell’erotico. quasi subito mi sono redarguito, dovevo forse produrre scenari, doveva il mio teatro, che faticosamente si era liberato, nuovamente limitarsi con delle scenografie? se questa pittura dedotta dal mio teatro doveva avere un senso, allora doveva avvenire solo all’interno del teatro come processo drammatico, come evento che accade nel tempo. sviluppai una pittura di azione intrinseca al mio teatro. il cospargere le pareti veniva concepito come un processo teatrale nel tempo. l’azione era importante quanto il risultato. questa pittura diventava la grammatica visuale delle mie azioni su una superficie pittorica e l’accesso
rituale ai miei eventi performativi. il processo dionisiaco, questa pittura di azione spesso estaticamente eccessiva, conduceva alle attività eccessive delle azioni”.
Naturalmente la barriera più vistosamente aggredita e fatta cadere è quella dell’interdetto sociale,
quell’“estetica del brutto” anticanonica e anticlassica, un argomentare “basso” che non conosce grazia preventiva (“Oggi amiamo la bruttezza quanto la bellezza”, scriveva già Apollinaire) e coltiva l’eccesso la dismisura, un atteggiamento pienamente dionisiaco: il retaggio è, rimontando nel tempo, quello di Egon Schiele – giusto per stare in Austria – ma concenrato sulla concretezza sostanziale dell’azione pittorica, in assenza di rappresentazione, anche e soprattutto per quel riportare la sessualità a una dimensione irrazionale, in cui il limite della Körpersprache (termine di largo e non omogeneo uso, nel decennio Settanta) si spinge anche al di fuori dei suoi confini definitori, sino a farsi teatro di umori, e colori (su tutti, il rosso / sangue) e sapori, e vischiosità,
e odori, e fonie parossistiche, in cui tutta la corporeità dello spettatore è coinvolta e si ritrova
straniata. Nitsch, nel suo risalire à rebours sino alle fonti di una sovrana astorica inattualità, attinge al mito greco (e all’idea fondante il teatro greco, che esiste in quanto rito collettivo a catartico) e alle complesse liturgie cristiane, trionfanti nel Barocco – e dal barocco Nitsch deriva anche la propensione a saturare i sensi dello spettatore sino all’eccesso, a un sovratono visivo ed emotivo scientemente portato a dismisura, a un repertorio di segni ridondante – e dal quale riprende stilemi inconfondibili come i paramenti sacri – e centrato soprattutto sul sangue dell’agnello sacrificale, nella crucialità del suo dire di vita e morte, insieme colore e materia e simbolo,
e sulla figura della croce. Ciò che colpisce, ed è assai caratteristico in lui, è che le sue azioni teatrali sono essenzialmente sue: presiede ad esse e ne organizza ogni aspetto, egli non è in scena ma chi è in scena è un mero esecutore di situazioni e movenze, non gli è attribuita alcuna delle facoltatività interpretative che ordinariamente riconosciamo all’attore. Nitsch agisce come autore, e insieme come il régisseur delle messe in scena medievali, in cui i personaggi erano indifferentemente
manichini o persone, e responsabile del tutto era un pittore, un organizzatore meticoloso
degli spazi e delle immagini: mutatis mutandis, è il ruolo di Nitsch, del quale non si può non notare che, nonostante agisca una realtà deliberatamente esacerbata, sempre si preoccupa dell’organizzazione complessiva dell’evento e dei suoi interni equilibri. Nitsch attribuisce alla pittura un ruolo non ancillare rispetto agli eventi messi in scena. Anzi, per molti versi essa è il materiale primario della visione, ciò che può anche essere astratto dal contesto: anche se, orfani dell’apparato della messa in scena, i dipinti tendono a farsi intendere come relitti muti,
come spesso accade in iniziative espositive recenti nelle gallerie d’arte. Non solo, come è ovvio, l’esposizione dei soli quadri, in luoghi deputati dell’arte, innesca automaticamente nello spettatore aspettative prevalenti di pittorico; in realtà, nel contesto previsto da Nitsch, la compresenza di altri materiali scenici ne istituisce una lettura diversa e, a seconda delle circostanze, più ricca e non univoca. Quanto per Nitsch sia fondamentale la messinscena, appare cruciale dal fatto che essa è a ogni occasione adattata allo spazio disponibile, e anche ora che l’artista non può più presiedere alla disposizione essa è affidata alle competenze dei suoi fedeli collaboratori, in primis Giuseppe Morra, secondo princìpi ferrei di disposizione. Non è fissa, ma adattabile seguendo i princìpi stabiliti dall’artista in vita. Qui. Ha scritto Italo Tomassoni, “la regolarità geometrica delle composizioni, il tempismo dei singoli passaggi, la precisione della componente sonora, sono elementi costitutivi che rendono l’azione interamente strutturata e servono a raffreddare la potenza drammatica della scena consegnando per sempre il cinetismo dell’azione al registro immobile dell’arte”. La struttura è precisata, ivi compresa l’attivazione della sensazione di disagio sottile, qualcosa di più delle semplici deroghe ed eccessi formali, che il pubblico e gli attori vivono: ma è un disagio di cui Nitsch accelera le componenti sensuali, piuttosto, una saturazione in cui i corpi toccano gli estremi più diversi senza soluzione di continuità. Non è irrilevante notare che, giusto per affinità ulteriore con i mystères medievali, dove il palco era sovente denominato come échafaud (patibolo) a ribadire il valore cruento delle scene, dei patiboli sono spesso in Nitsch gli ambiti propri di azione corporea. In questo contesto le parti pittoriche rivelano in pieno la loro turgida plenitudine di senso, in nome di
un’astrattezza irrelata che è, anche a livello scenico, una diversa, straniata funzionalità.