Inizialmente influenzato dall’arte Informale, guadagnò però popolarità con i suoi dipinti monocromatici, arricchiti da lettere e collage. La svolta avvenne nel 1962 quando, durante un viaggio a New York, incontrò Andy Warhol, entrando così in contatto con la Pop Art. Dipinse i suoi primi Paesaggi anemici che presentò alla Biennale di Venezia nel 1964. Negli ultimi anni Schifano si concentrò sull’uso dei media; tipiche di questa fase le tele computerizzate.
Le due esposizioni, seppur in dialogo, hanno funzione e durata diverse. Quella milanese è pensata per essere più introduttiva e terminerà a inizio aprile, lasciando il posto all’altra, che rimarrà fino a metà giugno. Tutto il progetto è stato realizzato grazie al supporto e al patrocinio dell’Archivio Mario Schifano – fondato nel 2003 dagli eredi, Monica De Bei Schifano e Marco Giuseppe Schifano – impegnato a conservare viva la memoria dell’artista.
Per quanto concerne le fotografie, in mostra si trova una selezione della produzione dell’artista, databile tra il 1963 e il 1970, anno del viaggio in America con Nancy Ruspoli. Pur non essendo Schifano un fotografo tout court, come commenta Salvadori, “la qualità dei suoi scatti potrebbe essere ascrivibile a un fotografo perché per lui la fotografia è concettualmente importante. Il concetto dello schermo, del quadrato e del rettangolo, diventano la proiezione dello spazio mentale nel quale opera”.
Citando Maurizio Fagiolo dell’Arco, si può dire che “l’arma di Schifano è il regard, un occhio obiettivo, una camera fotografica mentale. Non vede una cosa, ma la vede inquadrata, la vede angolata; considera cioè il mondo della vita dietro uno schermo, che è oggettivo ma finisce per dare un’impronta astratta agli ultimi frammenti mondani“.